Ho seguito la polemica nata fra Adriano Sofri e alcuni parenti di
vittime del terrorismo, apparsa su Repubblica fra il 5 e il 12 febbraio.
Mi sento coinvolto e provo ad entrare, sommessamente e con rispetto,
nella discussione.
Una premessa: conosco direttamente due dei
quattro firmatari della lettera del 12 febbraio (Milani e Dendena). Ho
raccolto in altre occasioni i loro racconti sulle stragi che ne hanno
segnato le vite, ci uniscono amicizia e stima sincere e reciproche.
Sofri lo conosco indirettamente: con lui ho in comune la passione civile
per il caso Pinelli, che recentemente è stato centrale in nostri
diversi e distinti lavori. Con questa premessa non voglio accreditarmi
come paciere nella discussione (cadrei nel ridicolo) né vantare chissà
quale autorevolezza in una materia complessa e delicata. Più
semplicemente, intendo presentarmi come un osservatore esterno, che
forse proprio per questo può avere il necessario distacco, ma pure come
persona che nutre profondo rispetto per tutte le persone coinvolte nella
discussione, al di là delle diverse posizioni.
La mia analisi
comincia da un fatto apparentemente marginale, ma su cui tutti gli
interessati sono intervenuti, ossia l’interpretazione del finale del
Pescatore di De Andrè. La lettura corretta della canzone è proprio
quella proposta da Sofri, ossia una condanna – su cui, beninteso, si può
non concordare – della delazione. Se questa può apparire vaga e sfumata
nel Pescatore, assume maggiore nettezza in un’altra canzone del
cantautore genovese. Nel Testamento di Tito De Andrè riscrive
criticamente i dieci comandamenti biblici, ivi compreso quello che
invita a non fornire falsa testimonianza. Tito, sulla croce, ricorda le
proprie menzogne (“Ho spergiurato su Dio e sul mio onore e no, non ne
provo dolore”) opponendole con orgoglio al precetto (“Non dire falsa
testimonianza e aiutali a uccidere un uomo”).
Chiaramente si tratta
della suggestione di un artista, da sola insufficiente a chiudere la
questione (si farebbe un torto allo stesso De Andrè), e andrebbe fatta
ben altra disamina sulla differenza fra delazione e assunzione piena
delle proprie responsabilità, con conseguenti chiamate di correità. Bene
hanno fatto Milani, Dendena e gli altri a ricordare che senza il
contributo dei collaboratori di giustizia non si sarebbe arrivati a
certi risultati su Piazza Fontana (per quanto incompleti, ma questa è
un’altra faccenda) né, aggiungo io, ad istruire il processo attualmente
in corso per Piazza della Loggia. E’ però altrettanto opportuno
ricordare che non è casuale se certe collaborazioni sono emerse a tanti
anni dai fatti, iscrivendosi in un panorama complessivo di indagini su
cui gravano omissioni, reticenze e depistaggi non occasionali ma
fortemente voluti da apparati dello Stato. Per Piazza Fontana i
“pentiti” hanno confermato che la pista che già i magistrati Stiz e
Calogero stavano seguendo, senza poterla percorrere fino in fondo, era
quella giusta. Ma è pure vero che i collaboratori di giustizia non
sempre si sono dimostrati limpidi nelle proprie dichiarazioni, come
proprio il caso Sofri può dolorosamente dimostrare, quasi specularmente
rispetto agli altri casi citati.
Infine, sul caso Pinelli ritengo
che il dissertare se vada o meno inserito fra le vittime del terrorismo
sia utile solo se non ci si ferma ad elementi che potremmo definire
“semantica del diritto”. E’ pacifico che, seguendo rigidi schematismi,
la morte del ferroviere anarchico non può essere annoverata nell’elenco.
Più utile sarebbe però discutere del caso Pinelli iscrivendolo nel
disegno (da tempo ormai accertato e che procedette per lungo tempo dopo
la sua morte) che voleva indirizzare le indagini su Piazza Fontana verso
la pista anarchica. Molte cose a quel punto potrebbero essere più
chiare. E il nome di Pinelli, se non nell’elenco delle vittime del
terrorismo, potrebbe essere annoverato in quello delle molte vittime
collaterali di quella stagione. Un elenco che esiste, ed è non solo
lungo e doloroso, ma rappresenta pure un altro ostacolo che impedisce
una vera chiusura di quegli anni e la costruzione di una memoria
condivisa, vanificando ancora oggi quella che potremmo chiamare una
“soluzione sudafricana”.
Francesco “baro” Barilli
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