Caro Manganelli,
ho riflettuto a lungo, più che sull’opportunità di
scriverle, sul come o in che veste farlo. Potevo scegliere quella del
mediattivista che da tempo si occupa di casi di “malapolizia”, a Genova e
non solo. Oppure, in modo più teatrale, quella di figlio di un
poliziotto, solleticando così la curiosità sua e di qualche lettore.
Alla fine è lei ad aver sciolto i miei dubbi con una recente intervista
concessa al Secolo XIX. “Genova in quei giorni è stata devastata da
migliaia e migliaia di persone. Persone che hanno messo paura. Che hanno
seminato il terrore. Che hanno fatto guerriglia urbana”, ha affermato.
Il 16 novembre 2008, in una lettera a Repubblica, aveva usato parole più prudenti: “Credo
che il Paese abbia bisogno di spiegazioni su quel che realmente accadde
a Genova. L’Istituzione, attraverso di me, si muove e si muoverà a tal
fine senza alcuna riserva”. Poco tempo dopo, all’inaugurazione del
centro per la formazione alla tutela dell’ordine pubblico, si era
lasciato andare a un’altra mezza ammissione. Parlando del G8 2001 aveva
detto che “in questo campo ci sono stati errori. Ma noi abbiamo la
forza di ammetterlo. E lo spirito critico per isolarli perché non si
ripetano” (fonte: Il Secolo XIX). A voler essere cattivi c’è da
pensare che il clima politico, rovinosamente mutato in senso autoritario
nei pochi mesi che separano queste dichiarazioni, l’abbiano portata a
ritenere il G8 genovese un problema risolto. Peccato che di quel
problema molti ancora oggi portino i segni, nel corpo e nell’anima.
Leggo, ancora dalla sua intervista più recente, che lei comunque
rispetterà, nel merito, le decisioni della Magistratura. A quasi 9 anni
dai fatti suona irriverente, e questo non credo risponda alle sue
intenzioni. Ho già detto, e lo ripeto ora, che non penso che la vera
risposta sul luglio genovese dovesse venire dai tribunali. Soprattutto,
non credo che la risposta della magistratura vada letta solo col
pallottoliere che conta condanne e assoluzioni. Le ricordo, a tale
scopo, che i tribunali hanno già espresso alcuni giudizi, ben diversi
dalla sua tranciante assoluzione delle forze di polizia.
Sulla
carica al corteo di Via Tolemaide del 20 luglio (da cui nacquero gli
eventi che portarono all’uccisione di Carlo Giuliani) i giudici di primo
grado hanno riconosciuto le prime reazioni dei manifestanti come “una reazione legittima nei confronti di atti arbitrari dei pubblici ufficiali”. L’ordine stesso di attaccare il corteo “non solo era illegittimo, ma palesemente ingiustificato e sproporzionato alla situazione”.
Su Bolzaneto riporto un estratto dalla condanna in primo grado
all’ispettore di polizia penitenziaria al vertice della caserma: “…
con più azioni esecutive dello stesso disegno criminoso … sottoponeva o
comunque tollerava, consentiva, non impediva che le persone ristrette
presso la caserma di Bolzaneto fossero sottoposte a misure vessatorie e a
trattamenti inumani e degradanti, e arrecava così un danno ingiusto … a
tutte le parti offese in stato di arresto presso la caserma … con la
conseguenza di una sostanziale compromissione dei diritti umani
fondamentali per le persone offese durante il periodo di permanenza …”.
Sulla Scuola Diaz la sentenza, ora sottoposta ad appello, dice che “quanto
accadde all'interno della scuola Diaz Pertini fu al di fuori di ogni
principio di umanità, oltre che di ogni regola ed ogni previsione
normativa … Quanto avvenuto in tutti i piani dell'edificio scolastico …
appare di notevole gravità sia sotto il profilo umano che legale. In uno
stato di diritto non è accettabile che proprio coloro che dovrebbero
essere i tutori dell'ordine e della legalità pongano in essere azioni
lesive di tali entità”. E sull’atteggiamento autoassolutorio e di
scarsa collaborazione da parte delle forze dell’ordine, lo stesso
verdetto specifica che le violenze nella scuola non possono “trovare
giustificazione se non nella consapevolezza di poter agire senza alcuna
conseguenza e quindi nella certezza dell'impunità”.
Sui
manifestanti feriti dalle forze dell’ordine nel corso delle varie
iniziative del luglio 2001, si è arrivati ad alcune sentenze in sede
civile in cui la magistratura, non potendo individuare responsabilità
personali ma riconoscendo comunque nella condotta delle forze di polizia
la causa oggettiva di quanto accaduto, impone al Ministero dell’Interno
il pagamento alle persone ferite di somme a titolo di risarcimento.
Queste condanne appaiono il segno tangibile che molti episodi sono
riconducibili “… a gravi negligenze, approssimazioni e omissioni in tutta l’operazione di ‘ordine pubblico’ compiuta” (estratto
dalla sentenza di risarcimento in favore di S.C.Z., percossa il 20
luglio in Piazza Manin, piazza tematica della Rete Lilliput).
Mi
sembra ci sia di che riflettere. Se lei volesse davvero dare un segnale
a quanti sono rimasti scandalizzati dall’operato delle forze
dell’ordine a Genova, potrebbe molto semplicemente esprimersi su
questioni concrete. Questioni, voglio eliminare ogni possibile equivoco,
totalmente indipendenti da quanto penalmente rilevante, e forse proprio
per questo il suo parere sarebbe più utile. Potrebbe, ad esempio, dire
la sua opinione su proposte da tempo sollevate. Per citarne alcune:
- la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine;
- il varo di una legge che preveda il reato di tortura;
- l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia;
- l’aggiornamento professionale circa i principi della nonviolenza;
- l’impegno alla esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine
pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l'impegno circa una
moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
Potrebbe infine esprimersi
sull’atteggiamento delle forze dell’ordine nei vari procedimenti
genovesi. Atteggiamento che negli stessi tribunali è stato sovente
stigmatizzato come segnato da una difesa corporativa che, a mio avviso,
nulla ha a che vedere con l’esigenza del Paese, che lei riconobbe nella
lettera a Repubblica, di spiegazioni su quel che accadde a Genova nel
luglio 2001.
Francesco “baro” Barilli
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