Mi fa un certo effetto scrivere di un fatto terribile come quello
avvenuto in Norvegia pochi giorni fa; me ne fa ancora di più pensando
che tutti ne hanno già parlato, dicendo tutto quello che c’era da dire.
Sulla strage in sé; sul ritratto psicologico e “ideale” dell’omicida;
sul riflesso pavloviano che ha portato i giornali di destra ad
attribuire inizialmente la strage al fondamentalismo islamico; sul
riflesso (questo tutt’altro che pavloviano) che ha portato
successivamente gli stessi quotidiani ad ardite elucubrazioni di
pensiero per dire che, in fondo, la strage di Oslo e Utoya non deve
farci riflettere sul fondamentalismo cristiano, ma sul multiculturalismo
(Allam, Nirenstein), sulla presunta pavidità antropoligica delle nuove
generazioni (Feltri), sull’inadeguatezza della pena (21 o forse
trent’anni) prevista per Breivik. E taccio di Borghezio, che un merito
l’ha avuto (vedremo in seguito…).
Siccome, dicevo, più o meno è
stato già scritto tutto, nel bene e nel male, aggiungo i miei due cents
di contributo come riflessioni sparse.
1. Generalmente chi come
me è convinto della natura rieducativa della detenzione (ed è quindi
contrario tanto alla pena di morte quanto all’ergastolo) è accusato da
destra di buonismo; nel migliore dei casi viene bollato come un
inguaribile sognatore, privo di quel senso pratico che dovrebbe farci
capire che la vita è dura e pretende a volte durezza nelle nostre
decisioni conseguenti (non è così, in sostanza, che si giustificano
anche le guerre?). Proverò dunque ad affrontare l’argomento proprio con
“sano pragmatismo”, senza ricorrere al profilo etico che mi fa essere
contrario in via di principio a una concezione punitiva della pena.
Innanzitutto: di stragi perpetrate da folli solitari (posto che davvero
l’episodio norvegese sia così inquadrabile) ne avvengono anche in paesi
che prevedono pene elevatissime fino a quella capitale. Gli USA ne sono
un perfetto esempio: non mi sembra che neppure la pena di morte funzioni
da deterrente; del resto è nella natura umana che proprio i folli non
fermino le proprie azioni per paura delle conseguenze.
L’ho già
detto in altra occasione: se davvero esiste il buonismo, certamente
esiste il cattivismo. E sono un po’ stufo di vedere considerato il
secondo meno grave e soprattutto più “realista” del primo. Quindi mi
limito a ricordare che in paesi come la Norvegia (così come in tutte
quelle realtà che sperimentano un carcere non tanto – o non solo – “più
umano”, ma imperniato sul recupero del condannato) il tasso di recidiva è
un terzo del nostro.
Ma, m’accorgo, tutto questo mio delirio sulla
“umanità della pena” poteva essere più efficacemente sintetizzato da
questa bellissima frase di Tore Sinding Bekkedal, sopravvissuto di Utoya
(trovata sul web): “Vi prego, non fatemi leggere messaggi pieni di
rancore, di sostegno alla pena di morte, o qualcosa di simile. Se
qualcuno crede che qualcosa migliorerà uccidendo questa piccola persona
triste, ha profondamente torto”. E, aggiungo io, se qualcuno a
questo punto è ancora interessato al dibattito “21 anni?, 30 anni?,
ergastolo?” è inutile che io prosegua…
2. Fermo restando quanto
detto sopra, fa specie leggere così tanti sinceri “liberalgarantisti”
chiedere la pena capitale per Breivik e applaudire convintamente una
norma che porta a 18 mesi la detenzione nei CIE per soggetti che non
hanno commesso nessun reato. E desta uguale amarezza pensare che gli
stessi commentatori “liberalgarantisti” non si siano mai stracciati le
vesti, ch’io sappia, per il fatto che le stragi italiane da Piazza
Fontana al Rapido 904 siano rimaste con poche eccezioni prive di
colpevoli consegnati alle patrie galere. Mi verrebbe da aggiungere un
capitolo sui “cattivi maestri” del terrorismo neofascista (una postilla:
chissà perché quando si parla di cattivi maestri si allude solo a
quelli riconducibili – anche con molte forzature – al brigatismo…) e su
cosa facciano oggi. Quel capitolo non lo aprirò. Dirò solo che molti
sono tuttora in vita e “accomodati” in postazioni ancora più
confortevoli del “carcere a 5 stelle” (così è stato definito) dove è
confinato Breivik.
3. Di solito dopo le stragi la condanna è
unanime. Verso gli attentatori, ma pure verso la loro matrice
ideologica. Nel “caso Norvegia” così non è stato e tutti si sono
affrettati a definire Breivik un pazzo isolato, punto. Che il
massacratore di Oslo e Utoya sia mentalmente disturbato è certo e che
abbia agito da solo probabile. Ma che dietro il suo gesto ci sia
un’ideologia, un “movente culturale”, è altrettanto pacifico: l’ha
spiegato lui stesso, molto chiaramente. L’etichetta di cristiano
fondamentalista se l’è attaccata da solo, e una parolina di condanna
anche in questa direzione non avrebbe stonato.
4. Quasi
dimenticavo “il merito” di Borghezio. Ebbene, è stato l’unico ad
ammettere candidamente che qui in Italia le teorie di Breivik (le
teorie, certo, non la follia omicida) sono entrate da parecchi anni nel
lessico comune ad ogni livello, fino ai palazzi più alti della politica,
proprio grazie alla Lega. Quelle teorie che non provocano sdegno negli
italiani, fino a quando non arriva il “pazzo isolato” a farcene capire
le conseguenze più estreme e definitive.
Francesco “baro” Barilli
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