Solo ieri, a tarda sera, ho visto sulla bacheca Facebook di Amal una
discussione su quanto successo sabato a Roma. Una discussione che, più
che farmi “parteggiare” per Tizio o per Caio (fra quanti hanno preso
parola sulla bacheca), mi ha lasciato perplesso. E quello stato d’animo è
diventato qualcosa di peggio leggendo i giornali oggi, sentendo Di
Pietro straparlare di Legge Reale, sentendo notizie di perquisizioni e
arresti, leggendo di accostamenti fra la Val Susa e i disordini a Roma…
Lascio le mi riflessioni per punti.
1. La discussione (parlo sempre di quella sulla bacheca di Amal)
si è in parte incentrata su “cos’è la violenza” e sulla domanda se
rompere vetrine sia “violenza” o “azione diretta”. La semantica è una
brutta bestia, non mi fermerei a quella. E’ pacifico che, in una
situazione disastrosa come quella in cui viviamo, chi protesta non è
detto che riesca a (o voglia) comportarsi come un Lord Inglese. Però,
secondo me, in una manifestazione ci vai con un “progetto condiviso”: e
mi sembra che la maggioranza dei manifestanti di sabato NON condividesse
le azioni del BB (so che si tratta di un’etichetta inadatta: uso il
termine per semplificazione, per capirci).
2. Io sono per la
nonviolenza. Per inclinazione personale prima che per convinzione. Nel
senso che sono fatto così: in un corteo fatico a gridare uno slogan;
lanciare un sasso sarebbe una cosa, più che inaccettabile, per me
innaturale. Ma so che all’interno di un movimento ci possono essere
pratiche diversissime: però sarebbe bene parlarne prima, non dopo.
Perchè se si vuole essere “interni” (a una manifestazione, a un
movimento) le pratiche, anche diversissime, vanno condivise o almeno
conosciute e accettate. Poi (sarò chiaro, visto che tutto voglio essere
tranne che ambiguo) se chiedete a me un parere sulle “vetrine sfondate”
(sempre per semplificare) vi dico non solo che non lo faccio e non lo
farei, ma che la trovo una cosa stupida e controproducente – e su questo
tornerò più avanti. Che poi in Italia chi rompe una vetrina sia
condannato a una valanga di anni rispetto a chi rompe una testa con un
manganello è tutto un altro discorso: uno stato di cose assurdo e che mi
fa incazzare, ma ADESSO NON stiamo parlando di questo.
3. En
passant (lo scrivo qui perché sennò mi dimentico: scrivo questi appunti
in fretta, senza un ordine particolare) vi invito a leggere la
riflessione di Rrobe sul suo blog: è molto interessante.
4. In un Paese normale dopo quanto successo a Roma il capo della
polizia e il ministro dell’interno sarebbero sul banco degli imputati.
Da noi invece si parla di ritorno alla Legge Reale… E se ne parla
dall’opposizione, per giunta... Ora, questo cosa ci dice (oltre che
siamo in un Paese totalmente squinternato)? Che qui, invece che litigare
fra noi su cosa sia violenza e cosa sia l’azione diretta, sarebbe bene
riflettere (MA ADATTANDOLA) sulla solita storiella del saggio che indica
la luna e lo stolto che guarda il dico. Dico “adattandola” in primo
luogo perché non mi va di fare la parte né del saggio né dello stolto.
In secondo luogo perché qui qualcuno (non necessariamente un saggio)
indica la luna: alcuni guardano il dito, altri la luna, nessuno si ferma
a dire che l’uomo, col suo gesto, sta semplicemente distraendoci per
non farci osservare cosa sta facendo con l’altra mano (magari si sta
solo sfrucugliando i coglioni, magari peggio, non so).
5.
L’assenza di conflitto e il conflitto violento non sono separati da un
abisso, ma da un sentiero stretto. E prima di chiederci “da che parte
stiamo” dobbiamo capire che, almeno in questo momento storico e alle
nostre latitudini, il conflitto violento (oltre che respinto in termini
etici, ma questo vale per me e – l’accetto – può non valere per altri)
va respinto in termini pratici. Perché oltre a produrre repressione
rafforza proprio lo status quo che si vorrebbe modificare. Per questo,
tanto per fare un esempio, non bisogna pensare ai fatti di Genova 2001
come a esagerazioni (non conta se specifiche o numerosissime) delle
forze di polizia: queste non avevano il compito di impedire o limitare i
disordini, dovevano alimentarli.
6. A corollario del punto
precedente: l’improvvisazione, anche quando generosa (ma questo,
perdonatemi, non è il caso di Roma dell’altro ieri) non paga. La
“provocazione creativa” va benissimo, ma non è esente da rischi, perché
fra noi si celano ambiguità prima ancora che teste calde. Sono in troppi
ad attendere che uno dei “nostri” perda il controllo per puntare poi
l’indice indiscriminatamente su tutto il movimento. E se qualcuno di noi
la fa fuori dal vaso è inutile lamentarci dicendo che si trattava di
poche gocce, perché sappiamo bene quanto i media ci sguazzeranno,
trasformandole in una pisciata colossale.
7. Lascio fuori da
questi appunti (altrimenti diventano Guerra e Pace) la riflessione sugli
“infiltrati”. Basti dire che ci sono stati (ci sta, è nell’ordine delle
cose), sia che con questo termine si intenda uomini delle forze
dell’ordine (o dei servizi) che si dilettano in dirty jobs, sia che si
tratti di frange dell’estrema destra che, di tutta la manifestazione di
sabato, condividono un generico “no alla globalizzazione e alla grande
finanza”. Ma non è nemmeno di questo che stiamo parlando…
Francesco “baro” Barilli
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