Succede che nei giorni scorsi, sulla pagina Facebook di una mia amica, incrocio un’interessante discussione sulla tragedia del ragazzo morto suicida a Lavagna. Finisco così con l’intervenire, anche se su questo fatto avevo deciso di non farlo.
Ho pensato, poi, che quanto avevo scritto poteva interessare a qualcuno. Quindi, riporto ora di seguito quel mio intervento, leggermente editato e ampliato.
Una premessa: non sono cristiano, né – quindi – sono legato “per obbedienza” al precetto “non giudicate o sarete giudicati”. Però quel precetto l’ho sempre trovato nobile e “alto”: ho sempre pensato intendesse “non puntate il dito, non condannate!!”; a questo ho cercato di restare fedele: m’ha aiutato il fatto che pure l’intera discografia di De Andrè lo insegna. Ma il “giudicare” (nel senso “formarsi un giudizio personale su qualcosa o qualcuno, dopo una propria valutazione”) è cosa ben diversa e di cui non mi vergogno. Aggiungo: da scrittore ritengo mio diritto “giudicare”, nel senso esposto sopra, nella consapevolezza che quanto dico o scrivo a sua volta viene giudicato. A volte duramente.
Però, però… “Sì, però non si giudica (in nessun senso) il dolore di un genitore”. Vero; infatti sul fatto in sé (il suicidio) non vorrei esprimermi. Un po’ perché ci sono pochi elementi, un po’ perché sarebbe davvero crudele e stupido. E non temo tanto il primo aggettivo, quanto il secondo.
Ma la signora al funerale ha parlato dal pulpito (in più di un senso…) e lo ha fatto per 5 minuti, dedicando gli ultimi 20 secondi a un saluto al figlio (a cui ha chiesto scusa… ma non si è capito di cosa – poi ci torneremo) e per il resto ha fatto un vero e proprio “discorso pubblico”, quasi un manifesto di idee. Ha parlato “ai giovani” e “ai genitori”. L’ha fatto senza usare una sola parola di autocritica, sistemandosi la coscienza e autoassolvendosi. L’unico accenno autocritico sta nel vago finale “Perdonami per non essere stata capace di colmare quel vuoto che ti portavi dentro da lontano”. Per il resto, il suo discorso è sembrato un’autoassoluzione, formulata con la bara del figlio a due metri, e un predicozzo; ai giovani (che devono rifiutare lo sballo, e tornare alla “vita reale”, lontani dai social media) e ai genitori (che devono “fare rete”, che in realtà non significa niente, ma oggi è di moda).
Un discorso intollerante; idealista quanto integralista, forse inconsapevole; incosciente (nel senso: non cosciente di quanto è successo); in definitiva pericoloso, come lo è ogni fanatismo.
Da lì (dal discorso, intendo) è partita una deriva di commenti sulla droga, sui relativi rischi, su proibizionismo e legalizzazione. Non una parola sull’opportunità o meno di quello “stigma sociale” che ha colpito la vittima.
Perché, parliamoci chiaro, questa storia avrebbe dovuto parlare soprattutto di quello: della vergogna che deve provare un ragazzino, perquisito prima a scuola e poi nel luogo per lui più intimo e sicuro: la propria camera. Per un po’ di fumo.
Quel ragazzo NON si è ucciso per “quel vuoto che si portava dentro da lontano”. In fondo è presuntuoso persino dire d’aver compreso perché l’ha fatto; ma di certo lo “stigma sociale” che si è abbattuto su di lui (l’essere trattato da criminale) ha influito non poco.
Per lui non si può più fare nulla. Per i disastri futuri che può causare una mentalità che non comprende la differenza fra “colpa” e “disagio”, fra “reato” e “farsi del male”, fra “educazione” e “punizione” (e le mille sfumature intermedie fra le varie categorie: la vita non è semplice e rifiuta semplificazioni e “caselle”), si potrebbe fare molto. Per questo, a mio avviso, rispondere a quel discorso non è per niente inopportuno.
Ma devo dilungarmi ancora: umanamente NON volevo ascoltare il discorso della madre. Quando però scrivo su qualcosa sento il dovere di conoscere. Sono uno scrittore (credetemi, NON lo ripeto per vanto – cosa ci sarebbe da vantarsi poi…): non sopporto quei giornalisti che si informano alla bell’e meglio e poi scrivono e pontificano. Preferisco evitare le emozioni e capire i fatti prima di scrivere. Credo (magari sbaglio) che un giornalista o uno scrittore abbiano doveri diversi da quelli di altre persone, quando commentano. NON sto dicendo che il parere di uno scrittore conti di più, anzi… Semplicemente il suo diritto di dare un parere “pubblico” non può prescindere dal dovere di informarsi preventivamente su ciò che sta commentando.
Dunque, non è che mi abbia dato fastidio il fatto che la donna si sia autoassolta (meglio: istintivamente mi dà fastidio, l’ammetto, ma quello cerco di non farlo entrare nella mia tastiera). Quindi non giudico cosa doveva o poteva fare o dire. Il punto è che lei ha scelto di fare un predicozzo a giovani e ai genitori. Si è resa “personaggio pubblico”, in buona o mala fede non m’importa. Ha detto in sostanza “quel che è accaduto a me può interessare a molti” (fin qui: giusto) “e quindi vi dico cosa dovete fare” (legittimo, ma allora ti rispondo).
Aggiungo che “la madre”, in un paese con un retaggio culturale cattolico e bigotto come il nostro, è un ruolo pesante, che finisce col pagare colpe non sue (sue “di madre” in generale, intendo: non sto parlando solo del caso Lavagna, ora). Tornando al “caso Lavagna” e per quanto mi riguarda, posso solo dire che ha parlato la donna e io ho quindi commentato le sue parole: l’avrei fatto ugualmente se avesse parlato il padre, per intenderci.
Il discorso della donna è uno di quei casi in cui è lampante che le parole, se non contestualizzate, rischiano d’essere incomprensibili o di perdere significato. Se il ragazzo fosse morto di un’overdose, per dire, sarebbe stato naturale sentire quelle parole: invitare i giovani a stare lontani “dallo sballo” e i genitori colpiti da simili esperienze a “fare rete”; chiedere scusa da genitore “per non aver saputo colmare quel vuoto”. Ma la situazione che ha portato al suicidio di Lavagna è completamente diversa: “il fumo” è stato solo una scintilla, il resto l’ha fatto lo stigma sociale a cui il ragazzo è stato sottoposto, peraltro in tempi e modi improvvisi e violenti.
Ho visto e apprezzato la lettera di Lello Voce. Non credo volesse presentare la propria situazione come “paradigmatica”. Ha contrapposto un’esperienza (la propria, dolorosa) a un’altra esperienza (quella di Lavagna, tragica) che invece la diretta interessata ha presentato come paradigmatica. La madre di Lavagna è salita su una cattedra per spiegare “cosa è giusto fare”. L’ha fatto con le lacrime agli occhi, ma questo può rendere una risposta più difficile e straziante, ma non per questo meno necessaria.
Francesco “baro” Barilli
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