martedì 11 settembre 2018

“Goodbye Marilyn”, dal fumetto al corto

Sull’inserto Alias de “Il Manifesto” del 25 agosto 2018 è stato pubblicato un bel pezzo di Thomas Martinelli a proposito di “Goodbye Marilyn”, corredato da un’intervista che Thomas (a cui va un sentito ringraziamento!) mi ha fatto.
Ne pubblico ora la versione integrale: si parte dal fumetto (firmato a me e da Sakka), e si parla di come si è arrivati all’omonimo cortometraggio animato, con regia di Maria di Razza, presentato a settembre 2018 come evento speciale alla XV edizione delle “Giornate degli Autori” nell’ambito del 75° Festival del cinema di Venezia.

*****

Goodbye Marilyn si sviluppa su una situazione inventata, seppur sorretta da diversi frammenti documentali, in cui immagini un’intervista con Monroe novantenne. Come hai proceduto?

Mi sono sempre ribellato al mito di Marilyn come icona muta di bellezza. Ho dunque scelto di inserire nel racconto frasi, poesie o riflessioni tratte da suoi scritti originali, per la maggior parte presenti in “Fragments”, curato da Buchthal e Comment (Feltrinelli 2010). 
Si trattava di appunti quasi sempre scritti a mano, toccanti quanto disordinati: Marilyn scriveva di getto, abbandonando poi quelle frasi senza correggerne ortografia o forma. 
La selezione dei testi è stata semplice. Ho isolato i brani che maggiormente mi avevano colpito, poi ho cercato di capire dove aveva senso che la “fatina” (ossia il personaggio che nel fumetto segue oniricamente i racconti di Marilyn intervistata) provasse un’emozione che la portasse ad estrarre un biglietto da lasciare lungo il proprio percorso…
In un certo senso mi sono immedesimato io stesso nella fata che assiste agli episodi biografici dell’attrice, per frugare poi nella propria bisaccia alla ricerca di un frammento adeguato. 
Per quanto riguarda l’espediente dell’intervista immaginaria, si è trattato di una soluzione per me naturale. Io ho sempre scritto fumetti dal taglio giornalistico: a questo punto, intervistare Marilyn direttamente (facendole porre le domande da un giornalista che in fondo è il mio alter ego) era l’idea più logica…

Alle tue spalle hai molte realizzazioni che raccontano la realtà con i fumetti, fra questi anche Carlo Giuliani, il ribelle di Genova e Piazza Fontana. In che modo intrecci realtà e finzione?

L’impegno civile ha sempre caratterizzato i miei lavori (così come l’attività dell’editore BeccoGiallo) per ferma convinzione, non certo per una scelta “di comodo o di moda”. Però, da scrittore, ho innanzitutto il compito di cercare per ogni storia l’approccio narrativo più opportuno: la vicenda della sfortunata attrice americana è diversa da quella di Piazza Fontana, per fare un esempio banale. 
Per le stragi fasciste del 1969 e 1974, così come per Carlo Giuliani, i miei lavori si fondavano innanzitutto sulla ricerca documentale: una ricerca essenziale anche in “Goodbye Marilyn”, ma che poteva accompagnarsi a suggestioni diverse.
La bimba/fatina che accompagna le scene oniriche è uno spunto contenuto nella prefazione di Antonio Tabucchi al già citato “Fragments”. Ho dilatato la sua intuizione, adattandola alle finalità del mio racconto: è stato anche un mio personale omaggio a uno scrittore che ho molto amato. 
Nelle mie ricerche di materiali mi sono poi imbattuto nel blog di un certo Patrick Seitz, che raccoglie i ricordi del padre James, il quale prestava servizio in una stazione di aiuto medico dell’esercito americano durante la guerra in Corea. Marilyn raccontò in alcune interviste di quando, nel febbraio 1954, fu invitata al fronte per una performance musicale: un’esperienza inconsueta, che l’emozionò particolarmente. L’aneddoto mi era istintivamente piaciuto, inoltre avevo bisogno di una figura “pragmatica” come contrappunto alla più eterea (e silenziosa) fatina delle scene oniriche: ecco dunque la figura del soldato…
Per dirla in sintesi: la ricerca documentale è la base di tutti i miei lavori. Lo è anche quando finisce con l’attivare, secondo modalità che razionalmente neppure saprei spiegare, la mia fantasia.

Dal tuo fumetto è tratto il corto animato di Maria Di Razza incluso nella selezione ufficiale alle Giornate degli Autori di Venezia. Hai avuto un ruolo attivo nella creazione del film?

Maria mi ha contattato dopo aver letto il fumetto. Devo ammettere che per me, all’inizio, è stato quasi un gioco (una cosa tipo “non ho mai scritto per il cinema, vediamo che succede…”). Il progetto mi ha coinvolto sempre di più, a tutti i livelli. Ed è stato indubbiamente merito proprio di Maria, che mi ha travolto con il suo entusiasmo, la sua serietà professionale… E anche, direi, con la sua capacità di ascoltare le idee altrui.
E’ persino banale sottolineare che scrivere per un fumetto e per un cortometraggio sono due lavori diversi. Cambiano i tempi tecnici, le modalità di fruizione da parte dello spettatore… Non si può certo trascrivere pedissequamente i dialoghi del fumetto sperando che si adattino miracolosamente al nuovo mezzo a cui sono destinati…

Nella versione animata sono assenti le parti con la fatina-Marilyn e il soldato padre dell’intervistatore che permeano il fumetto di una dimensione più spirituale e interiore. E’ così?

In realtà il nodo che abbiamo dovuto affrontare da subito per la trasposizione cinematografica era più pragmatico. Maria voleva realizzare un cortometraggio, che raccontasse Marilyn al pubblico di oggi con un linguaggio agile. Allo stesso tempo, era rimasta davvero colpita dal libro, e avrebbe voluto una trasposizione pressochè integrale. Ci siamo resi conto presto che un lavoro simile avrebbe “sforato” di parecchio gli standard di un cortometraggio…
Abbiamo quindi cercato di individuare un nucleo narrativo adatto a “reggere” la durata richiesta. La soluzione, a quel punto, si è presentata da sé, perché già nel libro la parte centrale è costituita dall’intervista immaginaria… 
Se riconosco a me stesso un merito specifico nel film è proprio quello di aver intuito che non era possibile, per motivi di spazio, una trasposizione integrale del libro. Libro e film, seppure simili e rispettosi l’uno dell’altro, dovevano avere ognuno la propria “personalità”.
Da quel momento, dopo aver scritto quello che possiamo definire il nuovo soggetto ed essermi confrontato con Maria, la palla è passata nel campo di Oliviero del Papa (che ha saputo mantenersi fedele al testo, adattandolo affinchè raggiungesse efficacemente lo schermo) e di Sakka (amica preziosa e disegnatrice di entrambi i progetti: per il film ha dovuto ridisegnare alcune sequenze ex novo). Il tutto sotto la guida di Maria Di Razza, con cui siamo rimasti costantemente in contatto. 
Sì, un’esperienza nuova e bella, per me: non è detto che non la si ripeta…

Così anche la scena finale del ballo con lo spirito del padre nel corto viene assolto dal figlio intervistatore. Pensi che cambi molto il senso complessivo della storia?

Guarda, come accennavo prima, libro e film sono diventati due prodotti artistici indipendenti l’uno dall’altro, seppure (passami la metafora) legati da reciproco affetto…
Tagliare la lunghezza del libro riducendola al nucleo essenziale dell’intervista ci obbligava a certe scelte.
In fondo, il cortometraggio è diventato più un omaggio a Marilyn, ma un omaggio non scontato: in parte tributo al mito, in parte riscatto della donna che andava oltre il mito e che nessuno sapeva capire. Il libro, a differenza del film, termina passando dal piano onirico alla realtà, ricordando Marilyn morta: ha un tono più accorato. Forse è giusto che al cinema (che davvero fu “il mondo” di Marilyn) questo lavoro abbia assunto un tono meno tragico e più dolce.

Un’altra differenza è l’assenza nel film dei riferimenti di contestualizzazione storica come, ad esempio, i Kennedy o Bob Dylan ben presenti nel tuo fumetto, per non dire la citazione iniziale da La rabbia di Pasolini. Che importanza hanno per te questi riferimenti?

Anche queste differenze si iscrivono nello stesso solco a cui accennavamo prima. Sono riferimenti molto importanti nel fumetto, li ho fortemente voluti. Nel cortometraggio animato sarebbe stato forzato inserirli, vista l’impostazione diversa del soggetto. 

Il tuo libro interroga la costruzione del mito rispetto alla persona vera. Quanto pensi sia centrale nell’interpretare la realtà oggi?

Dirò di più: nel libro non m’interessava tanto “il mito”, quanto “la persona”. E’ la persona-Marilyn a restare stritolata dagli ingranaggi dello star system (nonché vittima delle sue fragilità congenite, certo). Il mito invece le sopravvive ancora oggi e continua a “fare cassa”… Proprio per questo a me interessava raccontare (parafrasando il fumetto) “la donna desiderata da tutti, amata da pochi, compresa da nessuno… E che forse lei stessa aveva smarrito”. 
Quella di Marilyn è la storia di una donna dal carisma unico, che si arrampica con coraggio e spregiudicatezza per arrivare alla vetta del successo, per precipitarne poi. Una storia, dunque, che ci parla di show business, di condizione femminile, di disagio esistenziale. Credo siano tematiche attuali, forse addirittura “sempre attuali”. Anche per questo, nel fumetto ho immaginato una Marilyn viva e novantenne: come giudicherebbe lei stessa, ai giorni nostri, il proprio passato, dotata di quel pizzico di saggezza e distacco che l’età può regalare?
Marilyn ha incarnato un sogno. Un sogno che, dopo due guerre mondiali, ha illuso tanta gente che voleva vivere in un mondo migliore e voleva anche vederlo, nel grandioso formato di un cinema che s’affacciava al colore. 
Oggi, assieme al mondo, anche lo star system è cambiato. E il punto non è tanto ammettere che aveva ragione chi diceva che un giorno tutti avrebbero avuto il proprio quarto d’ora di notorietà, quanto il capire che essere tutti famosi per pochi momenti significa che nessuno può dire di esserlo davvero…
Nella società di oggi, in cui chiunque può farsi un selfie col “famoso di turno” (anche nei momenti più inopportuni: ne abbiamo esempi recenti…), trovo assolutamente attuale ricordare quanto la fragilità umana possa toccare ogni livello dell’esistenza. 

Nessun commento:

Posta un commento