Molti sostengono che i blog ormai appartengono al passato. In effetti pure io non aggiorno il mio da un sacco di tempo, anche se in questo periodo di cose ne ho fatte diverse...
Comunque sia, a questo strumento sono affezionato e mi dispiace averlo trascurato. Figurati, non ho nemmeno accennato al mio libro uscito a gennaio per Momo Edizioni, ed entro l'anno ne uscirà un altro, per lo stesso editore!!!
Dunque, tolgo un po' di ragnatele da questa stanza che sento mia. Andando con ordine...
"Il silenzio di Sabina", dicevo, è uscito a gennaio. Se clicchi sul link, trovi alcune informazioni utili.
La cover è di Claudio Calia, puoi vederla bene sul suo sito. La postfazione è firmata da Alessio Lega. Eccoti alcune recensioni uscite nel frattempo.
Alessandro Oricchio, su The Book Advisor
Edoardo Todaro, su Un'altra città
Siccome devo farmi perdonare la lunga assenza, di seguito ti lascio il finale della postfazione di Alessio! Tranquillo, anche se è una postfazione non toglie nulla alla lettura del libro, anticipandone solo i tratti principali.
(poi, sì, c'è l'altra cosa di cui sussurravo all'inizio. Qualcosa che arriverà entro l'anno, sempre per Momo Edizioni... Ma ci sarà tempo per parlarne, più avanti...)
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A cosa serve una prefazione (…ed a maggior ragione una postfazione)?
di Alessio Lega
[........] questo libro solleva il velo su uno dei punti più scuri, più urgenti, più disturbanti dell’esperienza repressiva: la tortura poliziesca. Ecco, di questi si deve parlare ogni qualvolta se ne presenta l’occasione, anche se su questo tema è davvero difficile esprimersi. Ci piacerebbe dire con sicurezza che la tortura non serve a niente, che il torturato si inventa qualsiasi cosa pur di far cessare lo strazio del dolore. Ma credo che questo argomento - pur fondamentale - non esaurisca il problema: può anche darsi che la tortura serva, che effettivamente produca degli effetti, ma ciò non cambia la sua sostanza orribile, la sua inaccettabilità. La tortura non è mai possibile, perché confonde l’accertamento della verità con la peggiore delle punizioni. Perché fa desiderare l’uscita dalla camera delle torture a qualsiasi costo: la prigione perpetua, la morte perfino. Perché trasforma tutti i suoi attori - carnefici e vittime - in esseri non più umani. Perché la tortura non ha ritorno: le ferite che infligge condannano ad una sofferenza perpetua la vittima, ad una vergogna perpetua il carnefice. Perché il carnefice è costretto a disumanizzare per sempre la sua vittima: come può pensare che lui stesso, un suo parente, un suo figlio, un proprio simile potrebbe essere per qualche motivo torturato? Perché la vittima è costretta a disumanizzare per sempre il suo carnefice: come potrebbe vivere pensando che un proprio simile può arrivare a fare ciò che è stato fatto a lui? Come può più credere in una qualsiasi dimensione sociale che tenga assieme vittime e carnefici? Come si può - dal momento che esiste la tortura - credere nell’umanità?
Ecco, mi sono fatto prendere dall’emozione, e non so se ho fatto un buon servizio a questo libro. Ciò che ha scritto Baro non è un saggio storico sulla tortura, ma un romanzo… dirò di più, una storia d’amore, impossibile come tutte le storie d’amore. La tortura qui - subita un tempo dalla donna amata dal protagonista ed io narrante - non è il centro del romanzo, è solo il motivo che in questa specifica storia condanna alla solitudine perpetua due esseri: il protagonista che si rende conto dell’inattingibile, inguaribile sofferenza della donna di cui si è innamorato, e la donna stessa che ha fatto esperienze troppo estreme e dilanianti per poter tornare alla “normalità” dell’amore, alla quotidiana cura che è una delle sue tre radici. Chi ha subito la tortura, come potrà più fidarsi di un altro essere umano?
Io e Baro siamo entrambi anarchici, e come tutti gli anarchici condividiamo alcuni valori essenziali, che si riassumono nell’equilibrio fra giustizia sociale e rispetto dell’individuo, però abbiamo ognuno la sua propria e per molti versi diversissima idea dell’anarchia… come tutti gli anarchici. Abbiamo però un’assoluta certezza: nessun anarchico (anche il più estremista) potrebbe mai essere un torturatore, nessun torturatore può essere anarchico. Ecco, in un mondo dove tutti i valori sono mobili e relativizzabili, per noi questo è un punto fermo: non è data anarchia senza identità fra mezzi e fini, non si raggiunge un fine nobile con mezzi ignobili. Non c’è terra promessa, non c’è torto subito, non c’è Dio rivelato che possa indurci dal disarmare questa certezza: finché qualcuno viene torturato non c’è anarchia, finché qualcuno tortura l’umanità non è libera. E la libertà anarchica è la traduzione ideologica dell’amore. Questa, in fondo, è l’essenza di questo romanzo.
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