Ho un’età in cui nella rubrica del telefono sono presenti nomi di persone scomparse. Potrei cancellarli ma non lo faccio. Alcuni fanno più male di altri. Quello di Paola Staccioli è uno di questi.
Nel
2007, proprio per il 25 aprile, avevo collaborato a una sua
iniziativa. La
rossa primavera
uscì in
allegato con Liberazione e L’Unità (successivamente per Edizioni
Clandestine). Si trattava di una raccolta di racconti, inserita nel
progetto lanciato con In
ordine pubblico e
Piazza bella piazza
(anch’esse curate da Paola).
Un lavoro a più mani di ricostruzione di storie e memoria attraverso
la narrativa.
La
rossa primavera
era imperniata su figure dell’antifascismo “a 360 gradi”. Si
parlava della resistenza partigiana, del ventennio, delle barricate a
Parma, della guerra di Spagna…
C'era
anche un mio racconto: Prenderemo
un caffè a Huesca,
imperniato sulla figura di Emilio
Canzi.
Ci siamo sentiti ancora, io e Paola. Collaborammo ancora, nel 2011, per ricordare Carlo Giuliani in Per sempre ragazzo. Poi ci siamo persi un po': la malattia sua, la mia... I mille casini in cui si incaglia la vita, insomma. Qualche messaggio, poi il tempo è stato ingiusto e crudele.
Paola è scomparsa il 31 luglio 2021.
Oggi pubblico quel mio vecchio racconto, anche stavolta per un 25 aprile. È il mio modo di ricordare Paola con affetto sincero. Lo stesso con cui dedico alla sua memoria queste righe.
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Prenderemo un caffè a Huesca
Carmen gliel’ha detto diverse volte: “Dottore, scusi se mi permetto, ma dovrebbe mettere ordine fra le sue carte: su scrittoio e libreria ho rinunciato a fare la polvere.”
Fernando Rinaldi entra nel suo studio con quel rimprovero nelle orecchie. A 85 anni non è bello sentirsi riprendere dalla donna delle pulizie, e a sua discolpa pensa che a una certa età il concetto di utile diventa vago, ma guardando quella stanza deve ammettere che Carmen ha ragione: sembra il negozio di un rigattiere. Prova a farsi forza, cercando dentro di sé il pragmatismo e l’orgoglio del medico, e decide che le emozioni non gli impediranno di rintuzzare la critica e di mettere ordine fra pile di cartacce, libri, ricordi.
Quando è il turno delle foto procede con metodo, separando persone care da volti ormai sconosciuti, per poi guardare meglio le immagini dell’ultima pila e scegliere quali buttare davvero. In poche si salveranno dalla distruzione, ma sarà proprio una di queste a colpirlo nell’anima. È scivolata dalle pagine di Omaggio alla Catalogna di Orwell. L’uomo a sinistra non sa neppure chi sia. Quello sulla destra – basco scuro, fucile a tracolla, pistola alla cintura – come dice la scritta dietro la fotografia è Il comandante partigiano Emilio Canzi, anarchico libertario.
Piacenza, inizio ottobre 1945.
Fernando Rinaldi cammina tranquillo lungo il corridoio dell’ospedale e spera che nessuna richiesta arrivi da quella stanza. Troppe responsabilità per le sue spalle, che sente ancora fragili. Per questo il sangue gli si gela nelle vene quando sente una voce femminile chiamarlo.
«Dottor Rinaldi… Mi perdoni, le chiedo un minuto…».
Conosce solo di vista quella ragazza. “Come, non sai chi è?”, lo aveva apostrofato un collega due giorni prima. “È Bruna, la figlia di Canzi. Poveretta, il padre l’ha conosciuto poco, ma deve amarlo molto. È qui tutto il giorno.”
«Dottore, vorrei sapere qualcosa su mio padre.»
Con Bruna ci sono due giovani. Il medico si avvicina, e nota che uno è armato, nonostante ai partigiani sia stata già imposta la restituzione delle armi, e questo lo mette a disagio: «Guardate che potete andare. Non c’è nulla che…».
Uno di quei ragazzi lo interrompe con cortese fermezza: «È il nostro colonnello. E noi stiamo qui con lui.»
Più della sostanza lo colpisce il tono di quelle parole. Interviene l’altro: «È stato organizzatore degli Arditi del popolo qui a Piacenza, sa? Ha conosciuto i campi di concentramento nazifascisti, in Spagna è stato nominato comandante delle Brigate Internazionali, e qui da noi comandante di zona… Sono tutti riconoscimenti guadagnati grazie alla fiducia di uomini come noi, che ci affidavamo a lui. Ora è lui ad avere bisogno, non l’abbandoniamo di certo…»
Bruna sembra comprendere: «Dottore, la prego di capire. Le do la mia parola che si tratta solo di una precauzione. E vorrei fosse chiaro che noi, tutti noi, abbiamo la massima fiducia in voi.»
«Mi scusi lei, non intendevo certo insinuare… È che le armi non le vorrei più nemmeno vedere. Specie qui.»
«La capisco. Lei è medico per salvare delle vite. Immagino non ami le armi… Mi creda: anche mio padre non le ha mai amate, e così pure questi ragazzi. Ciò nonostante, sono state necessarie.»
Rinaldi si sente in colpa. L’ultima frase gli ricorda la distanza tra il suo tiepido antifascismo e quello di chi ha rischiato la vita per lui, per tutti. In un impeto di coraggio aggiunge: «Ha la mia parola che qui dentro nessuno farà problemi per la vostra presenza. E, per qualsiasi evenienza, chiamatemi. Più tardi arriva il primario e gli ricorderò di passare da lei, glielo prometto. Posso assicurarle che stiamo facendo tutto il possibile per…»
Bruna lo interrompe: «La ringrazio. Davvero, di tutto.»
Fernando la vede entrare nella stanza del padre. Resta pochi secondi a osservarla. Canzi si è assopito, la figlia gli prende dolcemente la mano, devastata nella battaglia di Huesca, e la mette sotto la coperta. Certi piccoli gesti, pensa il medico, denotano tanto amore quanto minore è il loro apparire.
Il dottor Rinaldi è seduto al suo scrittoio, quella foto fra le mani. Gli è difficile pensare a una vita così distante, che lui seppe ricostruire imitando la fatica dei salmoni, nuotando controcorrente nel tempo, riunendo e accostando i vari tasselli raccolti: le poche parole di Canzi, i racconti dei compagni e della figlia, l’aneddotica un po’ confusa e un po’ epica di ogni figura che dopo la morte diventa leggenda.
Emilio Canzi, nato piacentino e anarchico, forse neppure in quest’ordine. A ventisette anni ha già combattuto una guerra, ma l’avvento dello squadrismo lo porta a militare negli Arditi del popolo e a diventare un fuorilegge. Nel 1922 fugge a Parigi per evitare l’arresto. Una parentesi di tranquillità, l’amore… ma il destino si diverte a scrivere con i toni del romanzo anche questa pagina della sua vita. S’innamora della figlia dell’amico Vito Parmeggiani, scontrandosi con lui perché Vittorina ha solo quindici anni. Stavolta la fuga, in Costa Azzurra, è per amore. Il nuovo traguardo, la nuova battaglia, è un amico da riconquistare: ci riuscirà solo nel 1930, l’anno in cui si sposa e nasce Pietro. Bruna, la prima figlia, era arrivata nel ‘24.
Quel periodo è un’oasi di pace in una vita tormentata che sta per essere scompaginata nuovamente, perché con il 1936 arriva la Spagna. Un Paese diviso in due, una parte controllata dai golpisti del generale Franco, appoggiati da Hitler e Mussolini, l’altra schierata col governo repubblicano. I repubblicani guardano alla Francia e alla Russia, inutilmente. Stalin darà un aiuto, ma più che alla sconfitta dei golpisti sembrerà interessato a ridimensionare gli eretici per ristabilire il primato della “ortodossia comunista”.
Emilio si troverà stretto fra l’affetto della famiglia e la coscienza che lo attira verso la Spagna, dove il fascismo, suo eterno nemico, lo attende. Sarà tra i primi, nel settembre del ‘36, a precipitarsi in Aragona.
Spagna, fine maggio 1937.
Emilio Canzi ricorda. La moglie e i figli, certo, ma anche la Spagna dei primi mesi. L’Aragona gli era sembrata un sogno. Ha visto vecchi braccianti piangere di gioia, non più sfruttati e umiliati, ma protagonisti delle Comuni agricole. Ha visto i muri di Barcellona, i manifesti del Fronte Popolare attaccati su ogni casa, i tram dipinti di rosso e nero, i camerieri che non ti chiamano più “señor” ma “camarada”… Ricorda un sogno che sembrava essersi fatto realtà, il sogno dell’anarchia.
Ma Canzi sa che la malinconia è un avversario infido. Per uomini come lui il ricordo e i sogni sono un lusso pericoloso. Non ha mai pensato che sarebbe stato facile, sa che non è mai stato facile, né mai lo sarà.
La voce di un compagno lo distoglie dai pensieri: «Ti vedo cupo. Qualcosa ti preoccupa?»
«Tutto. E niente… Ferruccio, m’aveva solo preso un po’ di nostalgia.»
L’amico sbotta a ridere: «Pensavo che a uno come te non capitasse!»
«Capita, capita… Sai, ieri notte stavo facendo un giro d’ispezione delle trincee. Ho trovato un compagno spagnolo. Parlava con uno di là, un fascista: era il fratello, sai?»
Ferruccio s’incupisce: «Che gli diceva?»
«No, cosa vai a pensare! Si raccontavano di come stanno. Si aggiornavano sui lutti… E l’uno chiedeva all’altro di venire dalla propria parte.»
«E tu non gli hai detto nulla? Emilio, non mi sembra il caso di…»
«No, non gli ho detto nulla. Con che coraggio potevo dirgli qualcosa?»
Dopo un lungo silenzio Ferruccio riesce a sputare la frase che stava rimuginando: «Emilio, io dopo Barcellona non so più che fare…»
Canzi si stropiccia la faccia e i capelli: «Lo so. Ti capisco, e rispetterò qualsiasi tua decisione. Anch’io ci sto male.»
«Sapevo che una guerra civile non è una guerra normale. Se possibile è ancora più sporca e dolorosa, si piange lo stesso sangue coperto da una bandiera diversa… Ma questa è ancora più bastarda…»
«Lo so, ma i fascisti…»
Ferruccio alza la voce: «Il problema non sono più solo i fascisti, Emilio! Dopo Barcellona non possiamo non vederlo. La volontà di Stalin di normalizzare le milizie è arrivata troppo oltre… Questa guerra ormai è un regolamento di conti tra noi, non possiamo fare finta di…»
Canzi non alza la voce. Non lo fa quasi mai, men che meno con i compagni, ma taglia l’aria con un cenno della mano, come a non ammettere repliche: «Lo so. Cosa credi, che io non pensi a Camillo, a Francesco? Agli altri? Lo sai cos’era Camillo, per me…»
Ferruccio si siede a terra. Si accende una sigaretta, la testa bassa. Poi guarda in faccia l’amico: «Tu che farai? L’Alto Comando insiste per tornare all’assalto di Huesca…»
Emilio resta a lungo in silenzio. «Capisco tutte le contraddizioni, Ferruccio. Ma io vado. Semplicemente perché quello è il mio posto, e il fascismo il mio nemico. E soprattutto perché lo devo proprio a Camillo e agli altri. Anche ora, anche con tutto quel che è successo a Barcellona.»
Ferruccio si fa ancor più pensieroso: «Emilio, dici che durerà ancora tanto?»
«Tanto? Una vita, Ferruccio. La nostra lotta durerà tutta la vita, questo lo so per certo.»
Fernando pensa a quel dialogo. Come lo conosce? Chi glielo ha raccontato? Con quali dettagli la sua memoria lo sta ingannando?
Tormenta una sigaretta fra le mani. Carmen l’ha rimproverato anche per quelle. Sa che ha ragione, ma se ne frega e l’accende. Il fumo sembra fare ordine nei suoi ricordi e nella storia.
La battaglia di Huesca è una dura sconfitta per i repubblicani. Emilio viene ferito e ricoverato per due mesi a Barcellona. Sicuramente è terribile per lui, abituato a vivere in prima linea, essere relegato ad ascoltare impotente le notizie sempre peggiori che giungono dalla Spagna. A fine agosto viene dimesso e torna a Parigi. La Spagna repubblicana trascinerà la propria primavera ancora per un anno o poco più. Nel ‘39 cade anche Barcellona, a marzo i franchisti entrano a Madrid. Una guerra si è conclusa amaramente, una ancora più sanguinosa sta per iniziare.
Viene nuovamente arrestato e deportato. Fuggirà dal campo di detenzione dopo l’8 settembre. Torna a Piacenza, ha cinquant’anni e potrebbe scegliersi un ruolo più defilato, invece prende la via della montagna. Stavolta il suo eterno nemico viene sconfitto, ma proprio ora che può assaporare la vittoria, dedicarsi alla famiglia e al sogno libertario, vede compiersi il suo destino. Il 30 settembre del ‘45 viene investito a Piacenza da un camion militare alleato, mentre sta viaggiando in motocicletta sul sellino del passeggero.
Piacenza, fine ottobre 1945.
Emilio Canzi respira a fatica. Fernando entra nella stanza: nonostante la sua scarsa esperienza, ormai gli è chiaro che il vero pericolo viene da quella pleuropolmonite, non più dalle fratture o dall’amputazione della gamba effettuata subito dopo l’incidente. Forse proprio per questo quando lo sente ansimare si avvicina al suo letto e prova a distogliere l’attenzione da quel respiro affannoso: «E la mano? Come se l’è conciata così, se posso chiedere?»
«Questa ferita è della Spagna…» Poi prosegue con difficoltà: «Huesca, i fascisti…»
«Non si sforzi. Ora non deve più pensare ai fascisti. Li abbiamo battuti, grazie a quelli come lei…»
«Qui sì. Ma in Spagna…»
«Ora deve pensare a stare tranquillo, perché la polmonite…»
Canzi lo interrompe con l’unico sorriso che sa donargli: «Anche questa… un regalo dei fascisti. Nella neve per settimane, durante il grande rastrellamento…»
Il suo ansimare gli arriva dentro, nel cuore, e parla a quel senso di colpa che Fernando ha già sentito incontrando Bruna. Impotente come medico, è l’uomo a parlare: «Tutti noi le dobbiamo un grosso grazie per quel che ha fatto. Tutti, per primi quelli come me, che non hanno mai preso le armi e forse, grazie a quelli come lei, non le prenderanno mai.»
Canzi fa un cenno con la mano, come a dire che non c’è bisogno di ringraziare.
«Sono io, invece…» prova a dire, ma il respiro si fa ancora più greve. Stavolta in Fernando è il medico ad avere il sopravvento: «Lasci stare. Immagino che lei non sia abituato a prendere ordini, ma in questo caso faccia un’eccezione e ne accetti uno: riposi e non cerchi di parlare. Ne discuteremo un’altra volta.»
Si sbagliava, non avrebbero avuto altre occasioni, e pochi giorni dopo la sua morte seppe che Emilio Canzi aveva lasciato tutti gli averi in denaro agli infermieri dell’ospedale. Davvero troppi i motivi per dirgli grazie, e non gliene aveva detti abbastanza.
Colpisce lo scrittoio con un pugno. La sigaretta è finita e già ne vorrebbe un’altra, ma resiste. Guarda la mano: sanguina, fa male. Si sente stupido, ma anche piacevolmente vivo, perché quella è la rabbia dei vent’anni, di quando era un medico sbarbatello, in servizio proprio il giorno dell’incidente.
Prova ancora vergogna al pensiero che sulle prime l’evento non gli procurò partecipazione: era sul finire del turno, e imprecò per il prolungamento forzato del servizio. La condivisione venne in seguito, ma non bastò. E neppure riuscì a conoscere Canzi quanto avrebbe voluto. Fernando sentiva il suo fascino, ma quel carisma aveva anche il sapore di un peso troppo grave per la sua competenza di medico, non ancora pienamente maturata, e il precipitare della situazione non favorì certo l’approfondirsi dei contatti.
Vedeva quell’uomo alto e robusto, ora debole e indifeso… Sentiva le aspettative di amici e parenti affievolirsi, e i medici, fragili custodi di quelle speranze, stavano fallendo nel loro compito. Dopo quella mattina di fine ottobre, la salute del colonnello anarchico peggiorò rapidamente. Morirà il 17 novembre.
Piacenza, novembre 1945.
Così come nel giorno dell’incidente, il caso ha voluto che Rinaldi sia in servizio anche il giorno della morte. L’infermiere di turno ha consegnato a lui quella foto, unica cosa dimenticata dai familiari e dai compagni che hanno liberato la stanza.
Al funerale c’è tantissima gente, proprio come il 28 aprile, quando Canzi è stato accolto come un eroe in piazza Cavalli. Due occasioni distanti pochi mesi, in cui Piacenza ha saputo dimostrargli la sua riconoscenza: sarà così anche per la sua memoria, si domanda?
Tutta quella folla lo intimorisce. Resta nel fiume di persone inebetito e un po’ fuori posto, vergognandosi per la sua eccessiva discrezione, che gli impedisce di avvicinarsi a Bruna per restituire la foto che tiene in tasca. Nei giorni successivi continuerà a rimandare, fino a rinunciare definitivamente.
Mette l’immagine fra le sue. Decide di riporla nella copia di Omaggio alla Catalogna, in una delle prime pagine dove Orwell accenna a Huesca. Gli piace mettere quella foto proprio lì. Ha conosciuto Canzi debole e ferito, ma vuole ricordarlo così: in posa col fucile a tracolla, con quell’aria austera e ottimista che sembra esorcizzare la sconfitta più dolorosa.
Ha messo due cerotti sulle nocche della mano. Non si è gonfiata, sembra a posto. Alcune gocce di sangue, sulla scrivania. Le pulisce col fazzoletto, che poi butta nella spazzatura: se Carmen lo trova sporco di sangue, chissà cosa va a pensare, e poi potrebbe preoccuparsi.
Con la memoria torna ai primi giorni della degenza di Canzi, quando si temevano più le conseguenze dell’amputazione che il riacutizzarsi della polmonite. Fernando pensa ancora a quel colloquio con Bruna e con quel giovane che per primo gli raccontò chi era il colonnello anarchico. Quel ragazzo si chiamava Gino Bergnia, conobbe proprio lì all’ospedale la figlia di Canzi, se ne innamorò e la sposò pochi mesi dopo, condividendo con lei tutta la vita.
Gli scappa un sorriso: su Bruna un pensierino l’aveva fatto, ma la timidezza… L’avrebbe rivista solo un’altra volta, da lontano.
Peli, aprile 1975.
Fernando litiga con la moglie: «Non capisco perché, con tutto quel che abbiamo da fare durante la settimana, butti via una domenica per andartene a Peli. Vorrei sapere cosa vuoi cercare.»
Neppure lui lo sa. Lungo le tortuose stradine che da Piacenza si inerpicano fino a Bobbio e poi a Peli non immagina quali sensazioni proverà, perché le sensazioni si vivono, difficilmente si possono spiegare.
Fernando Rinaldi è cambiato: non più un giovane medico, ma un affermato professionista, e il suo impegno è maturato piano piano, dal tiepido antifascismo dell’osservatore fino alla militanza nel Pci. Ma non è solo la coscienza politica a portarlo a quella festa partigiana, lì a Peli, dove la Resistenza piacentina è nata e dove Emilio Canzi ha voluto essere seppellito.
Sul palco proprio Bruna. Ora è cinquantenne, ma ancora si vedono i segni della donna giovane e forte che è stata. Attorno, fisarmoniche e canti popolari… Proprio come il 28 aprile ‘45, quando i partigiani erano entrati a Piacenza. Oltre quattromila uomini convergevano verso piazza Cavalli, mentre i nazifascisti in fuga passavano il Po.
Allora come oggi, chi cantava Bella Ciao e Fischia il vento. Allora come oggi, una gioia incontenibile, accanto al dolore di chi piange qualcuno fra quel migliaio di morti che il piacentino ha dovuto pagare come prezzo della Liberazione. Allora come oggi, sventolii di drappi tricolori. Solo l’odore è diverso: nel ‘45 si respirava ancora l’odore aspro delle rovine lasciate dai bombardamenti, oggi si respira l’aria di primavera.
Allora, era calato il silenzio quando dal balcone del Palazzo del Governatore si affacciò Emilio Canzi. Proprio come oggi il silenzio cala quando la figlia Bruna ricorda il padre.
“O tu che qui pietoso t’aggiri, ascolta la voce che ammonitrice e implacata s’alza da questa tomba”, sta scritto sulla lapide.
Fernando torna a casa stanco e felice. È tardi, la moglie è a letto.
«Non sono solo. In tanti lo ricordano ancora» prova a sussurrare, ma lei dorme già. E il dottor Rinaldi sente nelle ossa, assieme alla stanchezza, l’inspiegabile sensazione che qualcosa sta cambiando.
L’ha letto sul giornale: al Parlamento si discuterà una legge per equiparare a combattenti d’un esercito regolare quegli sciagurati che, nei venti mesi dell’occupazione nazista, vestirono la divisa della Repubblica di Salò… Che direbbe Emilio Canzi? Chi si ricorda di lui? E soprattutto: c’è qualcuno che almeno prova un po’ di imbarazzo per tutto questo?
Forse solo ora capisce perché ha tenuto quella foto e perché tiene ad assicurarsi che non vada persa. Ma non gli vengono in mente mani sicure cui affidarla.
Il figlio? No, Fabrizio è lontano, impegnato… A casa, al telefono, non lo trova mai. Risponde Paola, a volte i piccoli: lui è sempre chiuso nello studio a lavorare. Potrebbe scrivergli una lettera affidandosi alla speranza che la vita di un altro a Fabrizio risulti più interessante di quella del padre, ma non vuole diventare patetico.
Allora prende dallo scrittoio una grossa busta. Ci infila dentro quella foto e il libro di Orwell, assieme a una lettera.
Cara Carmen,
come vede ho dato retta al suo consiglio, e ho sistemato lo studio.
Le faccio solo una raccomandazione: le affido il libro e la foto che trova in questa busta. Specie alla foto tengo molto, e voglio saperla al sicuro.
Lei viene da un grande paese, il Cile. Da un grande popolo, che ha sofferto per la dittatura in tempi più recenti rispetto a noi. A volte ne abbiamo parlato e so che è sensibile a questi argomenti: forse la vostra memoria è un po’ meno distratta della nostra, non è stata ancora anestetizzata e travolta…
Chi è l’uomo della foto lo trova scritto sul retro. Emilio Canzi ha lottato per la libertà tutta la vita, In Italia, in Francia, in Spagna. Non scriverò la sua storia, forse un giorno lo farà qualcuno più bravo di me. E poi ora non voglio annoiarla troppo: le basti sapere che per me è importante. E non riesco a pensare a nessuno più affidabile di lei cui dare questo mio “tesoro”.
M’accorgo che le lascio un libro usato e una foto vecchia di settant’anni: come regalo non è certo molto, ma perlomeno è un dono che ha il pregio dell’originalità. Quando sfoglierà il libro, quando darà un’occhiata a quella foto, le chiedo di pensare a Emilio Canzi, a quanto è importante lottare per la libertà. E, magari, di pensare un po’ anche a me.
Fernando Rinaldi
Sente lo stomaco in subbuglio, la testa confusa e pesante. Pensa che un bagno lo potrebbe aiutare. Apre l’acqua calda e miscela la fredda. Ecco, così… Sì, quella sensazione sulla mano lo fa sentire meglio. Non scotta più, va bene…
Torna nella camera da letto, per cercare la biancheria di ricambio. Sente la schiena percorsa da brividi, brividi di malattia. Pensa di stendersi sul letto un attimo, mentre la vasca si riempie. I brividi aumentano, si rannicchia tirando verso di sé le ginocchia e raccogliendo il capo. La febbre sta salendo.
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NOTE:
Figura romantica e carismatica, Emilio Canzi fu presente nell’intero arco temporale in cui si dispiegò la resistenza antifascista.
Le informazioni sul personaggio sono tratte da Il colonnello anarchico. Emilio Canzi e la guerra civile spagnola, di Ivano Tagliaferri (Piacenza 2005), storico appassionato dell’antifascismo piacentino.
La figura del vecchio medico è opera di fantasia.
Nel dialogo (anch’esso di fantasia) ambientato sul fronte spagnolo ho immaginato che Canzi si rivolga a Ferruccio Tantini, anarchico bolognese che condivise con Canzi quell’esperienza. È una supposizione, non so se Tantini fosse ancora sul fronte spagnolo, dopo i fatti del maggio 1937 a Barcellona e l’esplosione dei contrasti fra gli stalinisti e i militanti libertari. Sempre in questo dialogo Canzi accenna a Camillo e Francesco, due vittime della repressione stalinista: si tratta di Camillo Berneri e Francesco Barbieri. Specie al primo era molto legato, e sarà proprio la vedova di Berneri a leggere una toccante orazione funebre in memoria di Canzi.
La frase che dà titolo al racconto è tratta da Omaggio alla Catalogna di George Orwell, che riporta il motto “Domani prenderemo un caffè a Huesca”, detto ottimisticamente da un generale repubblicano a proposito di uno dei numerosi tentativi falliti di attacco alla città.