Appartengo alla generazione del riflusso, quella che in gioventù ha
combinato poco o nulla. Di quel tempo ricordo la scarsa fiducia nelle
forme di politica organizzata, lo stridente contrasto con le generazioni
precedenti, che avevo conosciuto in mio padre, partigiano e comunista,
in mia sorella anarchica, che da piccolo mi cantava la ballata del
Pinelli o le canzoni di Lolli e Guccini. Nel mio giro di amici ci
passavamo gli scritti del Che, le cassette dei cantautori, altri libri
militanti... Però l'impegno era confinato ad una dimensione
individualista o amicale; le azioni, quasi goliardiche.
Di mentalità
anarchica (intendendo l'anarchia, citando De Andrè, come una categoria
dello spirito che prescinde da rigidi dogmatismi o da meccanismi di
appartenenza), non sono mai andato a votare fino al 2001. Poi arrivò
Genova, e tutto quello che ne è seguito, sul piano personale: l'impegno
di mediattivista, “persino” l'iscrizione a Rifondazione. In me si era
smosso qualcosa, era nata l'esigenza – ingenua e per certi versi
presuntuosa – di "fare qualcosa", sull'onda un po' guevarista di
recuperare la capacità di provare indignazione di fronte alle
ingiustizie.
Oggi non sono certo contento di quanto ho visto fare o
dire da Rifondazione e dalla sinistra. Più ancora, mi sento tradito,
quasi più nel metodo che nel merito. Questo perché, lasciando stare il
disastroso bilancio del “non realizzato”, ho trovato imbarazzanti certe
dichiarazioni, sugli avvicendamenti De Gennaro-Manganelli, sul decreto
espulsioni, tanto per citare due esempi.
La preoccupazione del
partito sembra però essere il nuovo soggetto politico e la sua salute
elettorale: con questo approccio abbiamo già perso; e si tratta di una
sconfitta sul piano culturale, che non muterà anche con un responso
elettorale lusinghiero. Per qualcuno il mal di pancia sarà forte, ma la
maggior parte credo metterà la croce sul simbolo, non è questo il punto:
quel che rimprovero al partito non è solo il non aver ottenuto quanto
atteso dalla nostra gente, quanto il non volersi assumere la
coresponsabilità nel fatto che durante il governo dell'Unione abbiamo
assistito addirittura ad un arretramento su quegli obbiettivi. Siamo
partiti sperando nei Pacs, abbiamo visto affossare i DiCo e oggi
addirittura ci troviamo a difendere la 194.
Quel che non posso
perdonare al gruppo dirigente è non tanto (o non solo) l'aver
contribuito ad affossare le speranze di una generazione, quanto il non
volerlo riconoscere. Se dico questo non è per cercare una frase ad
effetto. Fortunatamente, le speranze non sono come le vite: le vite, una
volta spezzate, non ritornano; le speranze sì. Ne vedremo crescere di
nuove, o vedremo ricrescere le vecchie sotto altre forme, ma non lo
faranno "con" la Sinistra Arcobaleno o "grazie" ad essa.
Una volta
ho parlato con un vecchio, saggio e semplice compagno, che aveva fatto
il partigiano. Mi disse semplicemente "nella mia vita ho mangiato molta
minestra grama: capisco se mi chiedono di mangiarne ancora. Ma m'incazzo
quando cercano di convincermi che quel che mi propongono oggi non è
minestra ma caviale e champagne".
Penso che quel vecchio compagno
avesse ragione, e se darò il mio voto alla Sinistra Arcobaleno sarà solo
perché non voglio consegnare alla residualità un patrimonio di valori
in cui credo, ma nella convinzione che il parlamento sia un aspetto
della vita pubblica, e neppure il più importante. E' nella società che
chiedo al partito di riprendere le nostre battaglie; ed è nella società
che chiedo al partito di riconoscersi, allo stato, sconfitto, senza
vendere la nuova operazione politicista come fosse qualcosa di "alto", e
non l'ultimo tentativo di non sprofondare nell'abisso.
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