recensione di Francesco “baro” Barilli e Checchino Antonini
Nella vita di una persona esistono fatti che determinano un prima e un
dopo, in positivo o in negativo. Non sono molti: il primo incontro con
qualcuno che si rivelerà fondamentale, la nascita di un figlio, la morte
di una persona cara… Ed esistono fatti che determinano un prima e un
dopo in un’intera generazione.
In America esisteva una frase:
“dov’eri quando hanno ucciso John Kennedy?”. Da noi non la si è mai
usata, non così esplicitamente, neppure di fronte ad avvenimenti che
hanno segnato l’esistenza collettiva. Pensiamo a Piazza Fontana, nel suo
significato paradigmatico della strategia della tensione, nel suo
rappresentare un orribile spartiacque per la storia del Paese.
Sicuramente quella frase può essere usata per i fatti di Genova e
l’omicidio di Carlo Giuliani, può essere usata da una generazione che si
risvegliò dopo la notte della Diaz, definita di volta in volta notte
cilena o macelleria messicana, fino a capirne i contorni assolutamente
italiani, che mostrarono i limiti di una democrazia che stava scivolando
verso il baratro, verso quell’enorme “zona gialla” che limita i diritti
e che dopo Genova sembra essersi allargata all’intero Paese.
“Con
il nome di mio figlio. Dialoghi con Haidi Giuliani” (curato da Marco
Rovelli e da poco uscito per le edizioni Transeuropa) lo si potrebbe
quindi valutare come un ennesimo lavoro sul luglio 2001, avvicinandosi
al testo pensando di trovarvi un approfondimento su quei giorni, più
prezioso per la voce da cui proviene. Desiderio legittimo quanto errato:
“Con il nome di mio figlio” non è un saggio su Genova, e neppure è (o
non è “solo”) una serie di ricordi toccanti della madre di Carlo
Giuliani.
Haidi aveva già raccontato Carlo e Piazza Alimonda in
almeno due occasioni. Prima nel film di Francesca Comencini “Carlo
Giuliani, ragazzo”, poi nel libro “Un anno senza Carlo”, scritto con
Giuliano sotto la guida di Antonella Marrone. Se il film era la denuncia
dell’omicidio, ed aiutava a rimettere nella giusta luce non solo i
fatti di Piazza Alimonda, ma l’intera atmosfera che sconvolse Genova, il
libro parlava del successivo percorso dei genitori del ragazzo ucciso
da un carabiniere il 20 luglio 2001. Se il film raccontava la ricerca
della verità, il libro mostrava come quella verità andasse difesa, come
dovesse essere conservata la memoria di quei fatti.
“Con il nome di
mio figlio” raccoglie un dialogo a ruota libera fra Haidi e Marco,
intermezzato da pagine tratte dai diari di Haidi. Può apparire – e in
parte è – più spezzettato e meno organico dei due lavori già citati,
mancando un univoco tema narrativo. Ma, nonostante questo limite, è
proprio in questo lavoro che Haidi e Marco costruiscono il panorama
completo degli 8 anni trascorsi dal luglio genovese. Nel libro c’è tutto
il Carlo che ci è consentito conoscere, senza travalicare il limite di
un dolore che resta personale: il figlio, il ragazzo sensibile che
scriveva le sue riflessioni in forma poetica su biglietti che la madre
oggi custodisce con cura (uno, particolarmente intenso, appare sulla
terza di copertina del libro), la vittima della repressione, ma anche il
Carlo insorto, il ribelle che s’indigna di fronte all’ingiustizia che
vede perpetrarsi davanti a sé e paga la propria ribellione con la vita.
Ma c’è qualcos’altro, e forse questo è il vero valore aggiunto (e anche
il merito di Marco Rovelli) rispetto ai lavori precedenti: c’è tutta la
Haidi che in questi anni chi scrive ha potuto conoscere. La madre, ma
anche la maestra che ha amato l’insegnamento (una testimonianza di
questi tempi ancora più preziosa), la senatrice spaesata ma combattiva
che segue la vita di chi è costretto in carcere o nei lager per migranti
(siano essi definiti CPT o CIE poco importa: lager è ancora la parola
più adatta a descriverli), la testimone di una scia di vittime che
attraversa Genova partendo da lontano e arrivando fino a Dax, Aldro,
Aldo Bianzino e tanti altri. In una parola, c’è la Haidi “compagna”, una
parola che oggi sembra provocare quasi imbarazzo, ma che – come
recitava una poesia di Paul Eluard che amava ricordare Giovanni Pesce – è
una di quelle parole per cui vale la pena di vivere.
“Con il nome
di mio figlio” non è un libro da commentare secondo semplici categorie
quali “bello” “utile” eccetera. E’ un libro che racconta un percorso
dove ad essere importante non è la meta, ma il viaggio. Un viaggio che
potremmo definire “camminare domandando” e che al tempo stesso è
percorso umano, politico, di impegno civile. Nel libro potrete trovare
le tracce di quel cammino e di quelle domande. E per questo vi sarà
prezioso quanto è caro a chi scrive questo commento...
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