(occhio, nelle righe che seguono ci sono un sacco di spoiler… Non dite che non vi ho avvertito…)
La terra dei figli (di Gipi, da poco uscito per Coconino) è un libro bellissimo. E potrei chiuderla qui.
Se vi piacciono davvero i fumetti è da leggere, punto. Ma anche se non siete appassionati del genere e cercate semplicemente una bella storia, scritta in modo appassionante e che “dica qualcosa”, il libro fa per voi. E vorrei soffermarmi più su questo aspetto che non sul primo, su cui spenderò poche parole…
… Ecco le due cose sul lato tecnico del fumetto. Quello che più mi ha colpito è il rigore a cui si è costretto Gipi. Gabbia rigida, sempre e solo una frase per ogni balloon, niente voice over in dida (neanche per stralci del diario del padre, il cui contenuto deve rimanere un mistero per il lettore come per il protagonista… ma su questo torniamo poi), un pennino sottile (scusate, sapete che sulla tecnica grafica sono un cane…) per disegnare tutto… Mi sembra che tempo fa Gipi stesso avesse parlato di queste regole autoimposte, sulla sua pagina facebook.
Rigore, dicevo. Intendo: il talento dell’autore è indiscutibile, ma “La terra dei figli” è frutto di una ricerca tecnica e compositiva attentissima. Su ogni tavola, forse su ogni vignetta, Gipi deve avere ragionato a lungo (in funzione della narrazione, dell’effetto sul lettore, del ritmo di ogni scena) per trovare la soluzione migliore.
Ma di tutto questo m’importa sega o quasi. Un po’ perché di tizi (in genere più preparati di me) che possono spiegarvi perché “tecnicamente” il nuovo di Gipi è un capolavoro ne potete trovare parecchi, se non sono troppo impegnati a parlare di fumetti per quindicenni che in Italia leggono i quarantenni e commentano i cinquantenni. Un po’ (soprattutto) perché io sono fra quelli che voleva “semplicemente” leggersi una gran bella storia, che avesse dentro “della ciccia”. Veniamo a questo, dunque…
L’ambientazione post-apocalittica non è originale… [la considerazione segue dopo una precisazione]
(oh, visto che il microcosmo fumettistico soffre di suscettibilità permanente lo scrivo anche se mi sembra scontato: il non essere originale NON è un difetto. E la ricerca dell’originalità a tutti i costi NON è un pregio)
[chiusura della considerazione]… e neppure il plot in sé. Non sappiamo quale tragedia ha terminato la civiltà come la conosciamo; un padre alleva due ragazzini fra le difficoltà di un mondo tornato primitivo e crudele; i due ragazzini restano soli dopo la sua morte e così via. Gipi però sviluppa la trama in modo estremamente acuto, curando anche in questo campo ogni dettaglio, mettendo anche nei contenuti quel rigore formale a cui accennavo riguardo le scelte stilistiche.
In sintesi (e ribadisco: pieno di spoiler…):
- volutamente l’autore non spiega i motivi della fine della civiltà (giusto un accenno “ai veleni” fa pensare a un’apocalisse “ecologica”), ma lascia intendere che è avvenuta da poco. La normale frattura generazionale padri/figli viene quindi enfatizzata fra chi (il padre) ha vissuto e ricorda la civiltà precedente e chi (i figli) conoscono solo il presente. Anche i rapporti affettivi risentono di questa peculiarità: il padre deve indurire la scorza dei figli, renderli adatti alla sopravvivenza. Così pure il linguaggio (ruvido ma ancora strutturato quello del padre; semplificato e primitivo quello dei figli) si differenzia fra i vari personaggi.
- Non è una sorpresa neppure il fatto che nel futuro post apocalittico si formino gruppi umani (nel nostro caso “i fedeli”) che danno sfogo ai propri istinti bestiali. In particolare, il gruppo più feroce è strutturato attorno a una sorta di religione (la cui rappresentazione appare denunciare contemporaneamente la scarsa considerazione di Gipi verso l’integralismo settario e fideistico, nonché una critica verso il mondo dei social).
- L’istinto guida l’umanità post-catastrofe. Ma, esattamente come nella civiltà a noi conosciuta, l’istinto può portare a sbocchi diversi. A una malvagità stupida e brutale (i fedeli), a una semplice esigenza di autoconservazione (Aringo), a una rigida disciplina - non priva di un affetto inespresso - per crescere i figli (il padre), al tentativo di “restare umani” (La Strega), o a nuovi codici comportamentali ancora da strutturare (i figli).
Una cosa importante. Lo sviluppo della storia è abbastanza prevedibile. Il lettore sa/capisce subito varie cose (occhio ai soliti spoiler). Non conosceremo il contenuto del diario del padre, ma il doloroso affetto dell’uomo per i figli è chiaro. I due ragazzi, seppure cresciuti in un mondo selvaggio hanno comunque maturato una loro etica, che li porterà a battersi per La Schiava e La Strega. Pure l’happy end (meglio: il tenero messaggio di speranza con cui Gipi chiude il libro) è intuibile…
Però, sia chiaro, tutto questo non toglie nulla alla bellezza del libro. Perché Gipi voleva scrivere esattamente questo: un fumetto duro, che svela contraddizioni ipocrisie e fragilità dell’attuale civiltà, ma che contemporaneamente apre una speranza verso il futuro. E l’ha fatto con talento, perizia tecnica, umanità…
Confesso: sono in un periodo in cui il pensiero più frequente che attraversa la mia mente è “moriremo tutti”. Ma persino il mio pessimismo cosmico non è rimasto indifferente alla carezza che chiude il racconto.
Francesco “baro” Barilli
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