Mi sono avvicinato al libro di Benedetta Tobagi (“Come mi batte forte il
tuo cuore”, Einaudi, 19,00 euro) con sentimenti contrastanti, convinto –
essenzialmente per due fattori – che l’avrei potuto commentare con
difficoltà. In primo luogo, pensavo di trovare in questo lavoro pregi e
difetti analoghi a quelli che riscontrai in “Spingendo la notte più in
là” di Mario Calabresi. Un libro sicuramente valido, come racconto sul
dolore personale e sull’elaborazione del lutto, di minor valore se
assunto come ricostruzione di una parte della storia d’Italia (per di
più filtrata dalla soggettività del figlio del Commissario ucciso nel
maggio 1972): un lavoro dignitoso, che si confronta con i limiti di una
rappresentazione parziale, valida nella misura in cui quei limiti li
ammette con franchezza. In secondo luogo, proprio Benedetta, su
Repubblica, aveva recensito con parole lusinghiere il mio “Piazza
Fontana”. Temevo che questo senso di gratitudine, unito al piacere di
aver conosciuto direttamente l’autrice proprio nell’anniversario della
“madre di tutte le stragi”, potesse minare la mia obbiettività e
depotenziare eventuali critiche.
La lettura del libro ha fatto
piazza pulita di questi dubbi. Innanzitutto, Benedetta non è “solo” la
figlia di Walter Tobagi (giornalista del Corriere della Sera ucciso il
28 maggio 1980 da uno di quei gruppi del terrorismo di sinistra che
agivano in una sorta di competizione con le più “famose” Brigate Rosse),
ma una scrittrice molto abile, che riesce a mixare nel suo libro
partecipazione umana e lucidità di analisi. In un certo senso è
fuorviante un passaggio della quarta di copertina, dove il libro viene
descritto come “tenero e terribile”: una definizione efficace ma
calzante solo in parte. Nel racconto, è vero, c’è tenerezza, tutta la
tenerezza di una figlia che ha potuto conoscere e amare il padre solo
nel rimpianto del vissuto che le è stato strappato, ma questo sentimento
è solo la cornice di un quadro in cui si trovano analisi spietate e ben
documentate: sulla scalata piduista al gruppo Rizzoli, sulla
degenerazione della politica e di un giornalismo servile (duramente
combattuto dal padre), sui “giochi di palazzo” all’interno del Corriere
della Sera, diventato una sorta di territorio di conquista all’interno
di una partita giocata sul controllo dell’informazione. L’unica analisi
di Benedetta che non mi sento di condividere, pur rispettandola e
trovandola ben argomentata, è quella sugli anni ’70. La barbara e
criminale uccisione del padre sembra trasfigurare quel ciclo, agli occhi
dell’autrice, in un magma di follia e violenza, cancellando, o almeno
sottovalutando, quanto di positivo ci fu in un periodo che fu
contrassegnato anche da lotte e conquiste sociali, da un bisogno di
partecipazione collettiva che – depurato dalle derive criminali –
sarebbe utile ricordare proprio oggi, di fronte al vuoto intellettuale
che sembra avvolgere gli ultimi anni. Un limite (meglio: una divergenza
di opinioni rispetto alle mie convinzioni) che sarebbe riduttivo e
banalizzante affrontare in questa sede: più opportuno sarebbe un
incontro in cui queste due visioni, invece di contrapporsi,
probabilmente si arricchirebbero vicendevolmente. E comunque, se pure si
trattasse di un limite, nulla toglie a un libro che, fin dal bellissimo
titolo (ripreso da una lirica di Wislava Szymborska), avvolge e
trascina in un abisso in cui il lettore troverà, accanto a toccanti
ricordi personali, la critica alle due degenerazioni della vita pubblica
italiana degli anni ’70: quella in doppiopetto di politicanti assetati
di potere e quella sanguinosa dei terroristi; due degenerazioni che
Walter Tobagi cercò di indagare con lo sguardo critico e curioso del
vero giornalista. Un abisso da cui il lettore riemergerà senza fiato,
proprio mentre Benedetta lo sorprenderà uscendone con la forza e la
dignità che ottiene dall’aver definitivamente consacrato una memoria che
sta a noi tutti non disperdere.
Francesco “baro” Barilli
Ho letto da poco questo libro e mi è paiciuto molto. Io condivido l'analisi dell'autrice sugli anni'70, certo che furono anni di grandi conquieste civili, ma guarda caso le conquiste civili si ottennero con manifestazioni pacifiche e in manier democratica tramite le elezioni.Tutto ciò che invece è stato fatto con violenza sopratutto in nome di una presunta "rivoluzione proletaria" (termine a quanto pare molto usato a sinistra)- che grazie al cielo non c'è stata, in Italia di dittatura ne abbiamo giàavuta una e credo sia bastata, penso che nessuno senta il bisogno di provare una dittatura di sinistra!- inevitabilmente (e per fortuna) è fallito.
RispondiEliminaLe conquieste civili del resto non hanno tratto alcun giovamento dalla violenza e dal terrorismo mi pare.-ricordare le violenze ei terribili omicidi di quegli anni non significa certo non ricordare le conquiste civili, ma solo inquadrare meglio i tempi. E a quei tempi purtroppo era molto pericoloso persino dire la propria, o comprare un giornale, si rischiava di morire per quello...