Nel quinto anniversario dell’uccisione di Federico Aldrovandi, a Ferrara
 si sono riuniti i familiari di alcune “vittime di stato”, ragazzi 
uccisi in vicende riconducibili, direttamente o indirettamente, a 
“malapolizia”. Negli interventi una frase è ricorsa ripetutamente: 
“queste cose non devono più succedere”. Parole che fanno tornare alla 
mente la petizione “mai più come al G8”, promossa dai comitati Piazza 
Carlo Giuliani e Verità e Giustizia per Genova, e consegnata al Senato 
il 30 giugno 2005.
 Riflettere sull’analogia, su questo auspicio 
comune alle due occasioni (“casi del genere non si ripetano più”) è 
agghiacciante se si pensa che il 25 settembre al tavolo dei relatori 
erano presenti testimoni di casi tutti successivi al G8 genovese e a 
quella petizione (ovviamente con l’eccezione di Haidi Gaggio Giuliani, 
la prima ad attivarsi, dopo il 20 luglio 2001 affinchè nascesse una rete
 di relazioni fra le “vittime di stato”).
 La prima, e amara, 
constatazione conseguente è che quanto fatto finora è stato 
insufficiente. La seconda, più importante, è che affermare “queste cose 
non devono più accadere” deve essere il terminale – e non la partenza – 
di un percorso, fatto di proposte e iniziative che, partendo dal basso, 
obblighino la politica a scelte responsabili e concrete. Proposte che, 
ad onor del vero, con poche integrazioni potrebbero essere proprio 
quelle della petizione del 2005, che finora hanno trovato poco spazio 
sulla scena politica. Del resto è noto ad esempio, e ne ho scritto in 
passato, il rifiuto del governo di aderire ad alcune raccomandazioni del
 Consiglio dei diritti umani dell’Onu, fra cui l’inserimento del reato 
di tortura nel nostro ordinamento. Ma va ricordato che l’Italia “fa 
spallucce” sull’argomento da più di vent’anni: la convenzione delle 
Nazioni Unite fu firmata nel 1984 e ratificata dall’Italia nel 1989. 
Questo per dire che l’ignavia del mondo politico è trasversale e 
tutt’altro che recente, fatte salve lodevoli eccezioni.
 Proprio 
la politica è stata una sorta di spettro incombente, sul convegno di 
Ferrara e sull’idea che i familiari si riuniscano in un’associazione 
rendendo stabile e formale quella rete già esistente nei fatti e nei 
rapporti umani. Alcuni preferirebbero un approccio totalmente estraneo 
ad essa, in base a una sfiducia verso “il palazzo” che, va detto, è 
tutt’altro che infondata. Altri temono, anch’essi a ragione, di essere 
strumentalizzati.
 Se sfiducia e timore sono comprensibili e, in 
certa misura, condivisibili, non devono però costituire un ostacolo al 
rapporto che, inevitabilmente, dovrà stabilirsi fra l’associazione e la 
politica, perché solo attraverso questo si potrà passare da una fase 
puramente rivendicativa all’ottenimento di risultati concreti. Il punto,
 semmai, è come costituire questo rapporto: su che basi? Con quali 
rapporti di forza?
 La risposta in realtà è una sola: sarà 
l’associazione a dover tenere in mano bussola e timone del percorso, 
avanzando le proprie proposte senza che nessuno possa tentare di 
“metterci sopra il cappello”; i politici che aderiranno saranno solo 
l’interfaccia con le istituzioni.
 Mi si potrebbe obbiettare che 
questo costituisce una sorta di strumentalizzazione al contrario, ma 
personalmente non mi sembra un problema. Ritengo infatti che i genitori 
di Aldrovandi e gli altri presenti a Ferrara non debbano sentirsi (o 
essere trattati come) “questuanti alla corte del re”, né semplicemente  
persone da risarcire (in senso etico, s’intende) per “farli tacere”, ma –
 innanzitutto – cittadini. Ossia cellula fondamentale (e sovrana…) 
proprio di quell’entità collettiva chiamata Stato che, invece di 
tutelarli, li ha così tragicamente colpiti. E’ dunque sacrosanto che, in
 una democrazia rappresentativa, i cittadini “utilizzino” chi dovrebbe 
rappresentarli. Che purtroppo avvenga sovente il contrario è una 
constatazione amara che non nega l’assunto precedente; semmai lo 
rafforza, evidenziando il degrado della vita politica, argomento su cui 
c’è molto da dire ma ci porterebbe fuori tema.
 Dunque, non 
devono esserci remore etiche da parte dell’associazione nello 
“strumentalizzare” (in senso etimologico: utilizzare qualcuno per il 
raggiungimento di un fine) i politici. L’operazione in senso contrario 
andrà sventata, ma prima bisogna essere consapevoli della sua duplice 
versione.
 Sulla prima (i politici che tenteranno di “mettere il 
cappello” sulle proposte dell’associazione) ho già detto. La seconda è 
più insidiosa e speculare alla prima: alcuni sottolineeranno che tali 
proposte (per citarne due scontate: inserimento del reato di tortura e 
codici di riconoscibilità delle forze dell’ordine) sono già state 
avanzate dalla sinistra, e nel migliore dei casi sosterranno che i 
familiari delle vittime sono inconsapevoli strumenti di una battaglia di
 parte. Credo stia all’associazione riuscire a connotare le proprie 
proposte come un fatto di civiltà che prescinde dagli schieramenti.
 
Mi sia consentita però una riflessione a margine. Non credo che 
l’indipendenza dalla politica sia un valore assoluto e non ho mai 
trovato la parola “bipartisan” particolarmente attraente. Peraltro, 
l’opposto di bipartisan è partigiano, termine che pure nel Paese 
bislacco che è diventato l’Italia dovrebbe rappresentare qualcosa di cui
 andare fieri. Incidentalmente, è il caso di ricordare che il 25 
settembre, oltre a ricorrere l’anniversario dell’uccisione di Aldro, è 
la data di nascita (nel 1896) di Sandro Pertini. So che non c’entra 
nulla, ma cito la coincidenza per due motivi. In primo luogo, è il mio 
modo di ricordare (seppure in modo “ingenuo”, ma visto che nessuno l’ha 
fatto va bene anche così…) il più grande Presidente che l’Italia abbia 
avuto. In secondo luogo, si tratta di sottolineare che certe proposte 
non sono “di tutti”, ma patrimonio culturale di una parte. Se su di esse
 si raccoglierà un consenso ampio e trasversale, se una petizione della 
futura associazione sarà sostenuta da esponenti del centrodestra, non lo
 troverò né spiacevole né paradossale ed accoglierò quel sostegno con 
soddisfazione. Ma, allo stato attuale, è doveroso ricordare che per la 
destra – almeno in Italia – esiste un problema culturale nel rapporto 
verso le forze dell’ordine, quasi una sudditanza acritica. Prese di 
posizione personali di segno contrario non vanno negate e sono da 
guardare con rispetto, ma per dirsi colmata quella distanza culturale ci
 vorrà tempo. Sarei lieto se proprio l’associazione fosse la scintilla 
che consentirà di innescare quel percorso.
 Per entrare ancor più
 nel merito delle proposte da avanzare, sono costretto ad un’ulteriore 
riflessione, forse un’altra divagazione.
 Molto spesso, nei casi 
Aldrovandi, Cucchi eccetera, la discussione si incaglia spesso sul 
cosiddetto tema delle mele marce e sulla sostanziale integrità delle 
istituzioni cui si dovrebbe rispetto (“a prescindere”, direbbe Totò) e 
chi mette in discussione la doverosità o l’automatismo di quel rispetto 
viene additato come pericoloso sovversivo. Trovo tutto questo 
fuorviante: sono le istituzioni a essere a servizio dei cittadini, a 
dover rappresentare e rispettare i cittadini, e non viceversa. Se con 
rispetto delle istituzioni si intende il riguardo dovuto alle forme e 
alla sostanza della democrazia che le genera, bene (in fondo, in questo 
senso i cittadini rispettano se stessi…); se invece si intende la 
venerazione di un Totem, di una sorta di divinità “superiore” e distante
 dalla gente, nulla potrebbe interessarmi di meno.
 Riguardo le mele 
marce, poi, ritengo stucchevole interrogarsi se nel cesto esse siano 2, 3
 o 8 su 10. Nel banale esempio ortofrutticolo, nessuno si sognerebbe di 
chiedere spiegazioni alle mele (marce o sane), ma parlerebbe 
direttamente al contadino che sovrintende al frutteto, col dovere di 
mettere sul mercato solo i frutti sani. Certo, sarebbe buona cosa avere 
la garanzia che questo abbia l’onestà di non farci pagare la frutta 
immangiabile, ma meglio sarebbe sapere che ad ogni raccolto farà di 
tutto affinchè sul mercato arrivino solo prodotti buoni.
 L’esempio, 
l’ammetto, è assai privo di originalità, ma serve per ricordare un 
elemento quasi mai affrontato quando si parla di “vittime di stato”: la 
necessità di una formazione preventiva delle forze dell’ordine (la 
categoria va intesa in senso più ampio: polizia, carabinieri, ma pure 
agenti penitenziari ecc) alla cultura del dialogo, alla consapevolezza 
della responsabilità nell’utilizzo della forza, ai principi della 
nonviolenza.
 In altre parole, sarebbe già un passo avanti sapere che
 le mele marce non debbano più godere di sacche di impunità, ma sarebbe 
assai più confortante se ad ogni raccolto si vigilasse affinchè queste 
non debbano nuovamente infettare il cesto. La certezza della fine 
dell’impunibilità è sacrosanta, ma non basta se si limita a stabilire 
che d’ora in poi gli abusi saranno puntualmente puniti; molto meglio 
attrezzarsi affinchè gli abusi vengano impediti. Gli aspiranti “Rambo” 
non solo devono sapere che loro comportamenti scorretti non saranno 
tollerati, ma soprattutto devono essere consapevoli, preventivamente, 
che non troveranno più nelle forze dell’ordine uno spazio accogliente.
 Se le premesse di questo mio intervento sono state lunghe (ma, ritengo,
 necessarie), molto più breve è l’elenco delle proposte a mio avviso da 
avanzare; ad alcune ho già accennato e in sostanza sono quelle su cui si
 ragionava già ai tempi della petizione “mai più come al G8”:
 - adeguare il nostro ordinamento alle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, introducendo il reato di tortura.
 - L'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta sui fatti 
avvenuti nel 2001, durante il vertice G8 di Genova e, precedentemente, 
il Global Forum di Napoli.
 - Formazione professionale delle forze 
dell’ordine finalizzata a promuovere una coscienza civica e deontologica
 conforme a funzioni difensive e nonviolente.
 - L'impegno alla 
esclusione dell'utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze 
chimiche incapacitanti e circa una moratoria nell'utilizzo dei GAS CS.
 - La definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell'ordine.
 A queste, aggiungerei almeno le seguenti:
 - l'istituzione di un organismo "terzo" che vigili sull'operato dei 
corpi di polizia (un po’ sulla falsariga della commissione che vigila 
sugli episodi di “malasanità”).
 - Stabilire che nei casi in cui un 
cittadino segnali un qualsivoglia addebito a carico di un esponente 
delle forze di polizia le indagini siano affidate a una struttura che 
garantisca imparzialità e terzietà, e non dagli stessi colleghi di chi è
 sottoposto ad indagine.
 - Rendere indipendenti le indagini 
amministrative da quelle penali. Troppe volte, infatti, è successo che a
 fronte di denunce i vertici delle forze dell’ordine si trincerassero 
dietro l’attesa delle decisioni della magistratura per non intraprendere
 azioni disciplinari (sospensioni dal servizio e simili).
 
Sicuramente c’è altro da aggiungere. Vorrei che si prendesse il mio 
intervento come un semplice contributo, qualcosa, spero utile, su cui 
ragionare per cominciare una discussione sull’argomento.
 Francesco “baro” Barilli
 
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