Varese, 14 giugno 2008. Sono circa le 3 di mattina quando Giuseppe
Uva e Alberto Biggiogero vengono fermati, in stato di ebbrezza, dai
carabinieri. Portati in caserma, Biggiogero sente le urla dell'amico
provenire da un'altra stanza. Alle 5 i militari chiedono l'intervento di
un'ambulanza. In ospedale richiedono un TSO e il trasferimento nel
reparto psichiatrico, dove il 43enne Uva muore poche ore dopo per
arresto cardiaco. Dagli esami tossicologici risultano somministrati
farmaci controindicati in caso di assunzione di alcool. Sarebbe questa
la causa del decesso, che lascia però aperte alcune domande: in primo
luogo se Uva, fra le 3 e le 5 di quella mattina, abbia subito un assurdo
pestaggio; in secondo luogo se i traumi eventualmente riportati abbiano
contribuito a causarne la morte.
Su questi aspetti si è concentrata
l'attenzione dei familiari, a cominciare dalla sorella Lucia, che non
ha risparmiato critiche all'indirizzo dei pm titolari dell'inchiesta.
Infatti, da quanto apprendiamo dal quotidiano La Provincia di Varese, la
Procura sembra avere un orientamento diverso: i pm sono convinti che la
sola causa della morte sarebbe da ricercarsi nella colpa di due medici,
ossia nell'incauta somministrazione del tranquillante che avrebbe
provocato l'arresto cardiaco. Sarà il giudice a stabilire, nell'udienza
fissata al prossimo 1 dicembre, in merito al rinvio a giudizio, ma le
premesse fanno supporre che il procedimento sarà incentrato solo sui due
medici, inquadrando la morte di Giuseppe Uva in un "normale" caso di
"malasanità".
Ciò nonostante, quella di "Pino" Uva è innanzitutto la
storia di un uomo affidato alle mani dello Stato (nel suo caso prima ai
carabinieri, poi a una struttura sanitaria) e riconsegnato morto ai
propri familiari. Conseguentemente è un caso in cui, indipendentemente
dall'accertamento di responsabilità penali, è legittimo attendersi
risposte dallo Stato, contrassegnate dalla massima trasparenza. Tutte
considerazioni che portano ad accostare la vicenda, pur con i necessari
distinguo, a fatti più noti all'opinione pubblica (Federico Aldrovandi e
Stefano Cucchi, per citare i due più significativi) in cui, al
contrario, la trasparenza non ha contraddistinto l'azione dello Stato.
Di tutto questo parliamo con Lucia, sorella di Pino.
Tu quando e come hai saputo della morte di Giuseppe?
Quella
mattina ero partita in vacanza con mia figlia Angela e i miei nipotini.
Alle 7:15 ricevo una telefonata da mia sorella Mara: mi dice che Pino
si trova in ospedale, mi racconta che lo avevano portato lì i
carabinieri perché prima lo avevano fermato ubriaco, e poi l'avevano
accompagnato nel reparto psichiatrico in quanto "sragionava". Ho
risposto a Mara di andare subito in ospedale per vedere cosa stava
succedendo e di farmi sapere...
Dopo, ricordo tante telefonate.
All'inizio Mara mi ha tranquillizzata: "Lucia, stai tranquilla, Pino sta
dormendo. Se senti come russa, sembrano mesi che non dorme!... Ci hanno
detto di non svegliarlo e di ritornare oggi pomeriggio alle 3". Tutto
questo verso le 10:00, ero appena arrivata al casello di Senigallia; poi
alle 11:10 mi ha chiamato mio figlio Alessandro: "mamma, zia Carmela ti
ha cercato... Zio Pino è morto...". Non potevo crederci, pensavo a uno
scherzo e gli ho riattaccato il telefono in faccia. Subito dopo ho
richiamato Mara che, piangendo, mi ha confermato la notizia. Alle 15:45
eravamo in obitorio.
Una volta giunta all'ospedale, hai potuto
parlare solo con i medici, oppure sei riuscita a chiedere spiegazioni
anche ai carabinieri che avevano arrestato Giuseppe?
A dire il
vero con i medici non ho parlato, lo avevano già fatto le mie sorelle.
Io alle 17 sono andata al posto di polizia del pronto soccorso, ma loro
non sapevano nulla della morte di mio fratello, non erano stati
avvertiti. Non sapevano neanche che era stato fatto un ricovero coatto,
un Tso, con Pino accompagnato lì dagli agenti. So che l'ispettore
Talotta ha fatto subito delle telefonate per avvertire il Magistrato di
turno, che quella notte era Agostino Abate. Purtroppo da quel momento il
dottor Abate non ha ancora fatto chiarezza sulla morte di Pino, a mio
avviso.
Quale è stata la prima versione ufficiale?
Ci
hanno detto che aveva avuto un arresto cardiaco, un infarto: questo è
quanto ci hanno detto, tutto qui. Poi sono spariti tutti, non si è fatto
trovare più nessuno...
So che quando hai visto il corpo hai avuto subito molti dubbi su quella versione...
Sì,
quando l'ho visto Pino era irriconoscibile: pieno di botte, il corpo
tutto viola, con escoriazioni su entrambe le gambe, la mano destra aveva
una nocca enorme... Poi ricordo le sue costole, sul lato sinistro, che
sporgevano fuori in modo innaturale. Il suo corpo era privo delle
mutande, ma aveva invece un pannolone: quando gliel'ho tolto era sporco
di sangue, i testicoli erano viola... Quel corpo me lo sono guardato
tutto; non era quello di uno che poteva essersi prodotto le lesioni da
solo (ti ricordo che si parlò molto di suoi gesti autolesionisti, per
giustificare le ferite): si vedeva che quelle erano botte date di santa
ragione... E poi dovrebbero spiegarmi come può riuscire uno a conciarsi
così da solo, proprio mentre è controllato da tanti uomini in divisa. Mi
sembra una ricostruzione priva di logica...
Cosa ti ha raccontato Alberto Biggiogero, circa quella notte?
Mi
ha detto che quella sera lui e Pino avevano bevuto un pò ed erano in
giro a festeggiare. Aveva vinto la Nazionale, e loro due, per gioco,
stavano transennando la via Dandolo (il giorno dopo era la festa delle
ciliegie). A un certo punto è arrivata una macchina dei carabinieri. Uno
di questi conosceva Pino: mentre lo inseguiva gli ha urlato qualcosa
tipo "Uva, proprio te cercavo stasera!". Dopo pochi minuti sono arrivate
due vetture della polizia e tutti insieme sono andati in caserma;
Alberto viene fatto entrare in una delle volanti della polizia, mentre
fanno salire Pino nell'auto dei carabinieri. Dentro la caserma i due
amici restano separati; Alberto è in una stanza, controllato a vista
dagli agenti, e sente Giuseppe, in un'altra stanza, urlare "basta,
basta". A un certo punto Alberto riesce ad approfittare della momentanea
assenza degli agenti e chiama il 118 per chiedere aiuto, ma subito dopo
i carabinieri hanno minimizzato al personale del 118 quanto stava
accadendo ("sono solo due ubriachi...") e poi hanno tolto il cellulare
ad Alberto...
Tramite il tuo avvocato, Fabio Anselmo, hai
prodotto perizie di medici che sostengono la tesi secondo cui la morte
fu causata non da errori medici (o almeno non solo da quelli), ma dai
traumi che Pino avrebbe subito nelle ore precedenti il decesso. Cosa
pensi della decisione del gup di non includere nel fascicolo quelle
perizie?
Non posso accettare questa ricostruzione. Non è solo
colpa dei medici, mi sembra una versione utile solo a nascondere la
verità. A mio avviso il PM Abate ha voluto proteggere i carabinieri. Una
cosa è certa: dopo 30 mesi non mi hanno ancora dato risposte. Cosa ci
faceva Pino in caserma con 10 uomini in divisa? Perché aveva i pantaloni
sporchi di sangue, dietro e davanti al cavallo? Perché era senza slip, e
dove sono finiti? Perché il magistrato non ha fatto analizzare i
pantaloni?
Nel "caso Uva" mi sembra abbiano fatto di tutto per nascondere quanto successo. Questa non si chiama Giustizia...
Qualora
la magistratura confermasse la decisione di incentrare il processo solo
sulla responsabilità dei medici, quali sarebbero i passi successivi che
la vostra famiglia intende intraprendere?
Posso solo dirti
che andremo avanti nell'impegno di scoprire la verità. Lo dobbiamo a
Pino. Sicuramente in questa battaglia ci aiuterà Fabio, il nostro
avvocato.
C'è un momento in cui hai deciso di far diventare pubblica la tua ricerca di verità?
Sì...
Una sera stavo seguendo un servizio sul processo per l'uccisione di
Federico Aldrovandi. Rimasi sconvolta, perché sentivo le versioni dei
poliziotti: erano le stesse cattiverie e falsità che avevo sentito dire
su mio fratello. Le solite cose: le lesioni alle vittime attribuite ad
autolesionismo, insinuazioni sul loro stile di vita (il tossico,
l'ubriacone...), la negazione dell'evidenza...
La mattina dopo
chiamai Lino, il papà del povero Federico, gli dissi che anch'io stavo
vivendo una tragedia come la loro, gli raccontai la mia storia e chiesi
consiglio su cosa potevo fare. Mi rispose di cercare di farmi ascoltare
dai giornalisti della mia città, di chiamare Beppe Grillo, di non
arrendermi... Poi ricordo una domenica, quando sentii la vicenda di
Stefano Cucchi: il lunedì chiamai Rita Cucchi e anche a lei dissi che
stavo vivendo lo stesso dolore. Pure lei mi disse "devi denunciare, non
dobbiamo arrenderci!". E così ho ricominciato da capo la mia battaglia.
Sono andata a Ferrara da Fabio Anselmo (che era già l'avvocato delle
famiglie Cucchi e Aldrovandi). Lui, dopo aver visto i pochi fogli del
fascicolo su mio fratello, si è impegnato subito per fare ripartire le
indagini: dopo 24 mesi in cui non era stato fatto quasi niente, lui in
pochi mesi è riuscito a smuovere quei PM dal loro torpore. Devo un
grosso grazie a lui e anche, voglio ricordarlo, a Luigi Manconi.
Ora
vediamo cosa succederà... Io dico solo che mio fratello, come tutte le
altre "vittime di stato", merita giustizia. E ti dirò che, secondo me,
non è solo una questione di giustizia, ma di dignità: una dignità che va
restituita a Pino e a tutti quelli come lui, prima ammazzati e poi
ricoperti di fango...
Francesco "baro" Barilli, 2 novembre 2010
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