mercoledì 30 dicembre 2009

"Piazza Fontana": altre interviste radio

Potete ascoltare e scaricare la diretta che Radio3 ha dedicato alla strage di Piazza Fontana lo scorso 12 dicembre. Io e Matteo chiudiamo la trasmissione negli ultimi dieci minuti della quarta parte.
Qui il link (cercate le 4 parti della puntata del 12 dicembre).

Inoltre segnalo la  puntata della trasmissione "Gli Inediti" su Radio Beckwith. Gli interventi sono di Matteo e Fortunato Zinni. Chi volesse ascoltarla vada qui.

Qui, invece, trovate la puntata di Garage Ermetico con interviste a me e Matteo.

mercoledì 16 dicembre 2009

altra intervista

Grazie a Matteo riporto dal suo blog:

Edizione del 14 dicembre del telegiornale fatto dagli studenti del Master di giornalismo dell'Università di Milano. Giovanni Ansaldo e Sofia Viganò hanno firmato un servizio sul nostro fumetto. Lo potete vedere attorno al minuto 10 a questo link

Giovanni e Sofia hanno fatto un ottimo lavoro, e li ringrazio.
Specifico solo che non sono un giornalista (l'ho già precisato in passato, ma ripetere non nuoce)

martedì 15 dicembre 2009

“Piazza Fontana”: la recensione di Benedetta Tobagi

Una recensione che mi sembra davvero importante: su Repubblica dell'11 dicembre il libro è stato recensito da una "firma" assolutamente autorevole (e significativa): Benedetta Tobagi, che penso non abbia bisogno di presentazioni.

domenica 13 dicembre 2009

"Piazza Fontana": intervista su Affari Italiani

ieri su Affari Italiani è stata pubblicata questa intervista al sottoscritto. E' stata realizzata da Maria Teresa Melodia (che ringrazio).

Questa la fonte:
http://www.affaritaliani.it/culturaspettacoli/piazza_fontana101209.html

e di seguito eccovi il testo:

Piazza Fontana, un mistero pubblico. In un fumetto una storia lunga 40 anni

Sabato 12.12.2009 07:30
Di Maria Teresa Melodia

Con un taxi 600 multipla verde e nero in copertina si presenta il libro-fumetto “Piazza Fontana” (ed. BeccoGiallo) con il quale Francesco Barilli e il disegnatore Matteo Fenoglio ripercorrono, in sette capitoli, una delle vicende più drammatiche della storia italiana. Quella di Piazza Fontana, il cui quarantesimo anniversario ricorre il 12 dicembre 2009, è stata una strage impunita: 10 processi, nessun colpevole, 17 vittime, e 84 feriti. L’inchiesta documentaria a fumetti di Barilli e Fenoglio ricorda come la verità sia ancora da ricercare nel groviglio di storie che il libro ripercorre con puntualità, ritmo incalzante e vignette dallo stile pulito. In appendice troviamo le inedite interviste a Francesca e Paolo Dendena e a Carlo Arnoldi, figli di due delle diciassette vittime, e a Fortunato Zinni, sindaco di Bresso, all'epoca impiegato allo sportello della banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana. Ad Affari lo sceneggiatore Barilli racconta e commenta il libro.
Barilli, un fumetto per ricordare Piazza Fontana. Come mai la scelta di ricorrere a un mezzo espressivo spesso pensato per un pubblico giovane?
“Piuttosto direi: perché non è stato fatto prima? Ci sono paesi nei quali il fumetto assume a pieno diritto la valenza di mezzo artistico, ma in Italia è considerato ancora un genere di serie b. La conseguenza che il fumetto si avvicini ai più giovani è importante, ma non così tanto. Mi spiego: è come se uno scrivesse un saggio di 1000 pagine contro la guerra e si chiedesse poi come sia possibile condensare tali tematiche in una canzone di tre minuti e mezzo. Poi ascolta la Guerra di Piero di De Andrè e ogni dubbio sparisce. Con questo non ho la presunzione di dire che il nostro lavoro rappresenta per il fumetto ciò che De Andrè rappresenta per la canzone d’autore, voglio solo sottolineare come ogni messaggio dipenda dal mezzo e va rapportato alle sue potenzialità”.
Com’è andata per ‘Piazza Fontana’?
“Ci siamo trovati di fronte a una tale mole di atti, fascicoli, materiali che siamo stati costretti a tagliare la nostra ricostruzione, ma sempre mantenendo l’obiettivo di raccontare qualcosa di molto complesso in modo semplice e non semplicistico. La nostra scelta ha escluso gli elementi di fiction nella vicenda, preferendo la via della cronistoria dei fatti,  per mantenere una dignità narrativa che si iscrive nella scelta della casa editrice Becco Giallo, impegnata da qualche anno nel riportare alla luce il patrimonio immenso di misteri italiani dimenticati, o messi a rischio da una memoria distorta”.
Che linee avete seguito per la ricostruzione storica?
“Fin da subito abbiamo deciso che pur mantenendo la nostra indipendenza come autori, ci saremmo dovuti interfacciare con i parenti delle vittime. Per questo il libro si chiude con le loro voci, con le interviste a Carlo Arnoldi (figlio di Giovanni Arnoldi) e a Francesca e Paolo Dendena (figli di Pietro Dendena), realizzate il 16 marzo 2009 a casa di Francesca. Era importante per noi capire le loro aspettative nei confronti di un libro, nel quale aldilà delle necessità della narrazione, comunque da salvaguardare, c’era soprattutto un lavoro di servizio  per le persone che da anni si battono per quella vicenda. Nonostante le critiche alla magistratura e gli aspetti ancora da chiarire è bene ricordare che siamo in possesso di un telaio incontrastato e assodato che riconosce le responsabilità della strage alla destra eversiva neofascista unita a spezzoni di servizi segreti che hanno coperto o appoggiato tali azioni. Emerge quindi una verità storica che è giusto raccontare e che vive indipendentemente da quella giudiziaria”.
Nel libro sono presenti  i versi della poesia Patmos di Pasolini, su cui si inseriscono le tavole dedicate alle 17 vittime della strage che diventano 18 con Pinelli…
“Dopo la sentenza ‘tombale’ del 2005 ho conosciuto Francesca Dendena per un’intervista. Nell’anniversario del 12 dicembre 2007 ho rincontrato Francesca in un’iniziativa di commemorazione e  proprio in quell’occasione Francesca ha letto Patmos di Pasolini, che non conoscevo, e io lì ho deciso che l’avrei inserita in una ricostruzione della vicenda. Versi che Pasolini scrisse di getto, immediatamente dopo la strage, prima del bilancio definitivo, ragion per cui non poté citare le altre 4 vittime e lo stesso Pinelli, che ho quindi inserito personalmente, volendo testimoniare anche i morti assenti in Patmos. Nel libro tutte le vittime sono ricordate nome per nome proprio per la volontà di ricordare la loro quotidianità, dando loro la dignità di essere non solo un nome su una lapide, ma esseri umani la cui vita è stata troncata da una mano atroce e cinica”.
E’ ancora possibile arrivare a una verità giudiziaria che dia credito alla verità storica?
“Aldo Giannulli, autore della prefazione, è pessimista a riguardo. E’ possibile una riapertura dell’inchiesta, ma è anche vero che nell'ultimo processo del 2005, accanto alle assoluzioni, la Magistratura ha espresso un duro giudizio verso Freda e Ventura. Si tratta però di un giudizio di colpevolezza che assume un’importanza solo “storico-morale”, in quanto i due non sono più condannabili perché precedentemente assolti con formula definitiva. Se pensiamo che oggi si sono aggiunte (proprio con la sentenza del 2005) altre assoluzioni definitive, è difficile pensare che un nuovo processo possa portare a esiti diversi. Le novità che vengono da Milano e dal processo di Brescia potrebbero portare a ulteriori passi avanti, ma 40 anni dopo la strage sarà molto difficile arrivare a qualcosa di più di una verità storica ormai consolidata. E’ bene ricordare che la strage di Piazza Fontana si inserisce nella strategia della tensione, frutto di un albero malato quale era la Guerra Fredda che in Italia venne condotta in trincea e in maniera sotterranea. Destra eversiva, agganci tra la politica e i servizi segreti, con spazi per i servizi segreti americani: sono tutti elementi già emersi nei processi”.
Nella prefazione del fumetto Aldo Giannulli, scrive “Se la storia è la spiegazione del presente, Piazza Fontana è la prima spiegazione dell’attuale degrado morale e politico del Paese”. Oggi l’opinione pubblica e le giovani generazioni sono consapevoli che quella strage è stata probabilmente la punta dell’iceberg?
“Alcuni anni fa ho letto un sondaggio fatto nelle scuole superiori milanesi: per la maggior parte degli studenti la strage di piazza Fontana era riconducibile alle Brigate Rosse. Una pista totalmente falsa dal momento che nel ’69 le BR nemmeno esistevano e infatti poi venne avvalorata la matrice opposta. Questo è abbastanza chiaro per capire quale sia la consapevolezza giovanile sulla questione, anche se iniziative come quella del 9 maggio 2009, (ndr anniversario dell’uccisione di Aldo Moro, data scelta come giorno della memoria dedicata alle vittime del terrorismo e delle stragi) nella quale il presidente Napolitano ha creato l’occasione di incontro tra le vedove Licia Pinelli e Gemma Calabresi, fanno sì che oggi sia maggiore, rispetto a un anno fa, la consapevolezza di colpe neofasciste. Per quarant’ anni la storia ci parla di un’opinione pubblica distratta, di un mondo politico apatico quando non colluso, di una magistratura timorosa e di un mondo dell’informazione appiattito sul potere. Certo, in tutti questi campi ci sono state lodevoli eccezioni, ma il giudizio di massima è quello, purtroppo…”
“Uno stato che non ha il coraggio di riconoscere la verità è uno Stato che ha perduto… uno Stato che non esiste”. Parole della vedova Pinelli, riportate nel fumetto e tratte da Una storia quasi soltanto mia (Feltrinelli, 2009), la lunga intervista che Licia Pinelli concesse a Piero Scaramucci nel 1982…
“E’ una delle frasi più significative del libro di Licia Pinelli. Come per i recenti fatti di Genova o per il caso Cucchi, l’Italia è fatta di storie di corporazioni che non si sanno giudicare. Penso che il segreto di una democrazia non sia quello che la maggioranza che vince domina incontrastata, ma che tale segreto stia nei punti di equilibrio che portano non a un potere assoluto, ma a un autocontrollo del potere stesso e a una capacità di auto-giudicarsi. Uno Stato esiste dal momento in cui riconosce di aver sbagliato e collabora per superare i suoi errori. Questo in Italia non avviene, né ieri, né oggi”.
Non le posso chiedere dov’era il 12 dicembre del ’69 perché aveva solo 4 anni…
“E’ vero, ero troppo piccolo, ma posso raccontare un episodio accaduto di recente in occasione della presentazione a Codogno (LO) di questo libro insieme al libro intervista Una storia quasi soltanto mia di Licia Pinelli e Piero Scaramucci. A rappresentare i familiari delle vittime, in assenza di Francesca e Paolo Dendena, impossibilitati a venire per problemi di salute, c'erano Pietro e Federica, rispettivamente figli di Francesca e Paolo, e il messaggio scritto di Carlo Arnoldi. In un luogo come l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) di Codogno erano presenti diverse generazioni fino ai nipoti di una vittima di Piazza Fontana, testimoni della memoria anti-fascista. Questo mi sembra molto importante e, soprattutto, un segnale di speranza”.

giovedì 10 dicembre 2009

"Piazza Fontana": recensioni e interviste

Vi segnalo "cumulativamente" alcune recensioni su "Piazza Fontana":

su Lo Spazio Bianco, a firma di Mattia Signorini

su Il Megafono Quotidiano, a firma di Checchino Antonini

(ne approfitto per ringraziare di cuore Mattia e Checchino per le belle parole)

sempre su Lo Spazio Bianco, e sempre a firma di Mattia, trovate anche un'intervista a me e Matteo

Passiamo ora a Linea Notte (trasmissione di approfondimento notturno del TG3): andate a questo link:
e cercate la puntata del 7 dicembre
. Potrete vedere Aldo Giannuli parlare della Strage di Piazza Fontana e del nostro libro, di cui ha curato la prefazione.

giovedì 12 novembre 2009

“I nostri ragazzi”: Stefano Cucchi

Della morte di Stefano Cucchi si è già detto molto. Sinceramente non saprei cos’altro aggiungere, se non che spero che stavolta gli esiti dell’inchiesta siano diversi da quelli consueti.
C’è però un particolare che mi ha colpito, nelle foto pubblicate. Non sto parlando di quelle del corpo martoriato e senza vita di Stefano, ma di quelle segnaletiche scattate all'ufficio matricole del Regina Coeli. Ce n’è una in particolare che ha qualcosa di struggente, quella che ne ritrae il profilo sinistro. Se non ci fossero quei lividi, se non sapessimo trattarsi di una foto segnaletica, se non conoscessimo già il tragico epilogo, Stefano non sembrerebbe in carcere, ma in libertà, affacciato a una finestra da dove guarda il mondo con uno sguardo triste e spaesato.
E’ un’immagine che mi ha dato da pensare. Per qualche meccanismo inconscio che non riesco ad indagare appieno, mi ha fatto venire in mente una definizione che di solito si usa quando si commenta la morte di militari italiani nelle cosiddette “missioni di pace”: “i nostri ragazzi”, si dice in quei casi.
Ho pensato che quella definizione la si potrebbe utilizzare tranquillamente anche per Stefano come per Aldo Bianzino, Federico Aldrovandi, Marcello Lonzi. Anche questi sono “i nostri ragazzi”. Fragili, impauriti. Forse imperfetti, come è normale siano, forse gravati da un fardello di errori. Come tutti, senza che su quei difetti debba speculare un Giovanardi di turno (già in passato distintosi sul caso Aldrovandi) e senza che i loro eventuali errori possano giustificare – in nessuna misura – le atrocità che gli sono state riservate.
Se ascoltiamo le storie di Stefano, Aldo, Federico, Marcello, scopriamo storie normali (solo, troppo brevi…) con la normale dose di tristezze e sorrisi. Come le loro foto passate (recuperate dopo che li abbiamo già visti stesi sull’asfalto o sul lettino di un tavolo autoptico) ci ricordano. Non sono eroi, ma davvero sono “i nostri ragazzi”. A cui un paese stupido e feroce, ormai dimentico di valori quali comprensione o solidarietà e ormai vinto da ossessioni ed “emergenze”, ha mostrato il proprio volto peggiore.

Francesco “baro” Barilli

lunedì 9 novembre 2009

“Piazza Fontana” su “Il Giorno”

Eccovi l'articolo a firma di Raffaella Foletti su "Il Giorno" del 7 novembre 2009.
E' una lunga (e molto bella) intervista a Fortunato Zinni.

Causa la mia paurosa abilità informatica, riesco a pubblicare l'intervista solo allegando i pdf delle due pagine. Vabbè, vi tocca solo fare un paio di clic in più...

Raffaella Foletti intervista Fortunato Zinni per "Il Giorno" di sabato 7 novembre 2009 - prima parte

Raffaella Foletti intervista Fortunato Zinni per "Il Giorno" di sabato 7 novembre 2009 - seconda parte

giovedì 5 novembre 2009

"Piazza Fontana" su "Io Donna" del Corriere

Allora: dopo le belle giornate passate a Lucca Comics, sono entrato in un periodo di crisi personale. Un po' di "male di vivere", unito a qualche casino di lavoro e ad altre riflessioni nere con cui non voglio annoiare i lettori (nè, per essere del tutto onesto, interrogarmi fino in fondo).
Tutto questo per dire che di aggiornare il blog non ho molta voglia (nè tempo). Per fortuna mi viene in aiuto l'amico Matteo Fenoglio, che ha aggiornato il suo blog con le 4 pagine che lo scorso 31 ottobre Io Donna ha dedicato al nostro lavoro su Piazza Fontana.
Potete leggere le pagine qui

Che dire: una piccola soddisfazione personale, che spero - unita ad altro - mi aiuti ad allontanare i corvi neri dei cattivi pensieri.

martedì 20 ottobre 2009

Sulla presunta incostituzionalità della legge contro l’omofobia

Alcuni giorni fa mi sono imbattuto in una trasmissione radiofonica sulla bocciatura della legge contro l’omofobia. Intervenivano persone comuni, e per questo l’ho seguita incuriosito, cercando di cogliere in quei pareri il “comune sentire”, ritenendolo più interessante delle dichiarazioni dei parlamentari che avevo ascoltato precedentemente. Stranamente, tutti o quasi i pareri erano non solo concordi con la bocciatura della legge, ma condividevano pure lo stesso tono e le stesse motivazioni di fondo. Non parevano, cioè, viziati da pregiudizi verso la comunità lgbt (almeno, non a livello conscio) ma concordavano nel ritenere sbagliato tutelare una minoranza (nella fattispecie, quella lesbica/omosessuale/transgender) più di altre. Tutti quei pareri li si potrebbe sintetizzare in uno, che suona più o meno così: “certo, è giusto e sacrosanto punire con fermezza gli episodi di violenza recentemente verificatisi ai danni degli omosessuali, ma senza per questo individuare per questi fatti aggravanti specifiche. Quei crimini vanno trattati come fossero ‘normali’ aggressioni, perché altrimenti si creerebbero disparità verso altre categorie di persone”.
Mi sembra uno di quei casi in cui l’opinione pubblica è stata sapientemente indirizzata verso un atteggiamento di rozzo buon senso che, anche quando in buona fede, nella migliore delle ipotesi è miope e incapace di vedere la complessità del problema.
Qualche esempio, banale ma utile proprio per l’elementare semplicità. Se una sinagoga viene incendiata da un gruppo di nazisti, è difficile vedere nel gesto un “semplice” – per quanto grave – danneggiamento senza parlare anche di antisemitismo. Se un gruppo di criminali aggredisce un individuo di origine africana per il colore della pelle, sarebbe demenziale parlare di “semplici” lesioni senza parlare di razzismo.
Altro esempio, persino più banale. Se il signor Mario Rossi, individuo di natura rissosa e manesca, viene coinvolto in un incidente stradale col signor Renato Bianchi (omosessuale) e, non sapendosi controllare, appena sceso dall’auto colpisce con un pugno l’altro conducente, l’aggressione va sanzionata in via “normale”. Magari ricorrendo alla sola aggravante dei “futili motivi”, supponendo che il gesto abbia la sua origine nella brutalità e inciviltà dell’altro automobilista, dovendo immaginare che l’inclinazione sessuale del Bianchi nulla c’entri con l’incapacità di Rossi nel controllare la propria rabbia. Ma se l’aggressione fosse maturata in un altro contesto, e appurassimo che il sig. Rossi si è avventato contro “l’avversario” solo perché ritiene insopportabile la sua omosessualità, mi sembrerebbe assurdo non parlare di omofobia.

Credo che a chi sostiene l’incostituzionalità delle norme contro l’omofobia sfugga una cosa molto importante. La Legge – in generale, intendo – non ha il solo scopo di individuare casistiche da perseguire penalmente, bilanciando colpe e punizioni secondo criteri di gravità e conseguente progressività delle pene. Ha pure un altro compito, socialmente persino più importante: dare segnali, dimostrarsi in grado di capire la mutevolezza dei contesti e l’oscillante gravità dei comportamenti secondo la loro diffusione.
Personalmente, aspiro a un mondo in cui non sarà più necessario parlare di aggravanti per razzismo o antisemitismo, perché mi auguro una società in cui tali atteggiamenti siano totalmente sradicati. Ma fino a quel giorno sarà necessario appurare se un’eventuale aggressione a un africano sia dovuta anche (o, peggio, solo) al colore della pelle della vittima, e fino a quel giorno sarebbe folle eliminare dal nostro ordinamento le aggravanti per motivi razziali. Analogamente, mi auguro che un giorno una legge sull’omofobia sia totalmente inutile, perché tutte le inclinazioni sessuali avranno libera cittadinanza, e vedere due uomini o due donne camminare mano nella mano sarà “normale” proprio come vedere una coppia formata da individui di sesso diverso. Ma fino a quel giorno è dovere di ogni cittadino (indipendentemente da quale che sia il suo personale giudizio morale sulle sessualità diverse da quella etero) riconoscere che in Italia l’omofobia esiste, eccome se esiste… Ed esiste non solo alla luce delle aggressioni recentemente denunciate, ma nello stesso momento in cui capiamo che camminare mano nella mano, per Mario e Luca, è molto più pericoloso di quanto non lo sia per Fabrizio e Sabrina. E questo, in un periodo in cui si (stra)parla di sicurezza dovrebbe far riflettere anche quelli che (per pregiudizi, chiusura mentale, dogmi morali e religiosi, o qualsiasi altro motivo) faticano ad accettare l’omosessualità come una normale e possibile inclinazione della specie umana.

Francesco “baro” Barilli

sabato 17 ottobre 2009

Una precisazione doverosa

Un visitatore di questo blog mi fa presente (nei commenti a due articoli: "Piazza Fontana: la copertina" e "E ora?..." - ndr commenti che non potete più vedere, perchè erano postati nella vecchia "incarnazione" di questo blog, su splinder, e non ho potuto recuperarli nel trasferimento su blogspot) che io non ho pubblicato il libro "Fausto e Iaio trent'anni dopo" (Ed. Costa e Nolan).

Il visitatore fa questa precisazione (correttissima, lo dico da subito) perché su alcuni siti (qui, ad esempio, ma anche altrove), compaiono queste parole: ...giornalista. Ha pubblicato "La piuma e la montagna" (Manifesto libri), "Fausto e Iaio. Trent'anni dopo" (Costa e Nolan).

Ora: quella scritta E' ESTREMAMENTE IMPRECISA. Lo è, credo, per semplice eccesso di sintesi e in buona fede, ma ciò non toglie che sento il dovere di correggerla, anche se, preciso, nulla c’entro con la diffusione di tali imprecisioni.

Andiamo con ordine.

- Che non sono un giornalista mi sono quasi stufato di dirlo, tanto che ormai l'ho scritto nel profilo (vedere qui a lato). Lo ripeto: si tratta di una definizione che mi onora, e probabilmente chi mi attribuisce l'etichetta "giornalista" è  portato a definirmi così in base a quanto ha letto di mio. In ogni caso, correttezza impone di ricordare che giornalista NON LO SONO.

- Sempre sul mio profilo sono scritte le informazioni giuste sia per quanto concerne "Fausto e Iaio trent'anni dopo" sia per quanto concerne "La piuma e la montagna":
Nel primo caso (Fausto e Iaio), ho solo collaborato al volume. Ho scritto due pezzi e ho cercato contatti con altri familiari che gravitano attorno a reti-invisibili, chiedendo loro di scrivere un loro ricordo. Mi sono mantenuto in contatto costante con Maria (la sorella di Iaio) curando questa sezione del libro (ossia quella, come accennavo prima, che contiene le testimonianze di Manlio Milani, Haidi Giuliani Patrizia Moretti, e molti altri). Il libro è di Autori Vari e sono fiero di avervi contribuito, ma il merito della "regia" del libro è del mio amico Daniele Biachessi.
Nel secondo caso (La piuma e la montagna) è corretto dire “ha pubblicato ecc…”, ma va sottolineato che il libro è stato scritto a quattro mani con Sergio Sinigaglia (personalmente l’ho SEMPRE ricordato).

A dimostrazione della mia buona fede (ossia: del fatto che con la diffusione delle notizie errate non c’entro nulla) riporto di seguito il profilo dell’autore che apparirà sulle pagine di Piazza Fontana, in libreria nei prossimi giorni:

Nato a Selvazzano Dentro (PD) nel 1965, è un mediattivista. Coordina il sito reti-invisibili.net. Per BeccoGiallo ha curato gli apparati redazionali di Ilaria Alpi, il prezzo della verità (2007), Dossier Genova G8 (2008), Il delitto Pasolini (2008), Peppino Impastato, un giullare contro la mafia (2009). Un suo racconto è presente in La Rossa Primavera (2007, allegato a Liberazione e l’Unità, ristampato nel 2008 per le Edizioni Clandestine). Ha contribuito al libro Fausto e Iaio. Trent’anni dopo (Costa & Nolan, 2008). Ha curato con Sergio Sinigaglia La piuma e la montagna (Manifestolibri, 2008). Con Checchino Antonini e Dario Rossi è autore di Scuola Diaz: vergogna di Stato (Edizioni Alegre, 2009).

Come vedete, in questo caso la nota biografica (che qui nel libro ho compilato io personalmente) è corretta.

Per chiudere la “polemica” (oddio, forse non è neppure il caso di parlare di polemica… semplicemente ora non mi viene un termine più adatto…):
1- Il visitatore di questo blog ha perfettamente ragione nella segnalazione: gliene do atto e pubblico questo mio intervento proprio come rettifica.
2- Non c’entro nulla con la diffusione dell’imprecisione che lui ha segnalato.
3- Ripeto di ritenere che la notizia errata sia frutto di eccessiva sintesi ed imprecisione, non certo di malafede. Anche le mie passate collaborazioni con Beccogiallo sono menzionate incomplete, per esempio. Credo si tratti proprio di una sintesi frettolosa su cui non vanno cercate strane dietrologie: a correggere penso basti questa mia lunga precisazione

Francesco “baro” Barilli

venerdì 18 settembre 2009

“Piazza Fontana”: il fumetto

Okay, ora posso dirlo (anche se qualcosa avevo già anticipato nei mesi scorsi): per la fiera del fumetto di Lucca, quindi orientativamente per i primi giorni di novembre, uscirà “Piazza Fontana”, per l’editore Beccogiallo, nel quarantennale della strage (uno dei fatti più drammatici della storia repubblicana, vero paradigma della cosiddetta strategia della tensione).

Sceneggiatura mia
Disegni di Matteo Fenoglio.
Prefazione di Aldo Giannuli
Postfazione di Federico Sinicato (avvocato di parte civile per i familiari delle vittime della strage)

Il fumetto conterrà anche, oltre ai redazionali succitati, una mia intervista con Fortunato Zinni, Francesca e Paolo Dendena, Carlo Arnoldi. Francesca e Paolo Dendena e Carlo Arnoldi sono i figli di Pietro Dendena e Giovanni Arnoldi, morti nella strage. Fortunato Zinni oggi è sindaco di Bresso. Nel ’69 era assessore al bilancio dello stesso Comune e funzionario della Banca Nazionale dell’Agricoltura. Fin dal giorno della strage è fra i testimoni più attenti ed attivi della vicenda.

Nei prossimi giorni vedrò di postare qualche tavola di anteprima.

domenica 13 settembre 2009

Lettera aperta ad Aldo Giannuli su Berlusconi e il Berlusconismo

Caro Aldo,

ho letto il tuo articolo, “Vogliamo liberarci di Berlusconi? Smettiamo di odiarlo!”. Condivido pienamente le tue considerazioni sulle colpe della sinistra e pure sulla natura tutt’altro che invincibile del Cavaliere come “macchina elettorale” (i dati che hai puntualmente riportato lo dimostrano). Qualche riflessione in più sarebbe forse da fare sulla mutazione di Berlusconi nel suo proporsi agli italiani. Trovo che l’uomo relativamente suadente del 94 si sia trasformato via via col passare del tempo. Il sorridente e rassicurante imbonitore è oggi aggressivo, arcigno, assume tratti davvero Mussoliniani nel muoversi, nell’arringare la folla, nella rozzezza del linguaggio. L’imbonitore si è trasformato in un grande condottiero, ma più che ad Alessandro il Grande assomiglia a Don Chisciotte (senza ispirare la stessa simpatia, e in ogni caso devo ancora decidere a chi eventualmente attribuire, nel contesto, il ruolo di Ronzinante e quello di Sancho Panza). Pure il codazzo di yesmen di cui si è sempre attorniato sembra essersi fatto più adorante e – al tempo stesso – timoroso. Viene il dubbio che se un tempo Berlusconi recitasse la parte del superuomo, oggi sia effettivamente convinto di esserlo.
Tutto questo meriterebbe ben altro approfondimento. Per oggi, accontentati di una “strana” riflessione, a cui mi ha spinto proprio il tuo pezzo.
In questi anni ho scritto molto, ma raramente mi sono occupato di Berlusconi. Non mi ero mai fermato a chiedermi il motivo di questa scelta (a dire il vero non avevo mai pensato fosse “una scelta” – non a livello conscio, almeno – né, quindi potesse essere sostenuta da una motivazione) e il tuo pezzo ha portato a galla, con la domanda, una serie di risposte possibili. Disinteresse verso l’argomento? Snobismo intellettuale? Una sorta di inaspettata maturità che mi ha portato ad anticipare la tua conclusione (consigliandomi un approccio più razionale e meno viscerale verso il berlusconismo)? Sinceramente non so rispondere. Forse un mix delle tre risposte, o nulla di tutto questo.
Condivido la tua considerazione circa la particolare sgradevolezza umana del personaggio e gli effetti che questa specie di “sfeeling” (passami il neologismo) può avere su qualsivoglia analisi del fenomeno Berlusconi. Ma proprio qui, ancora una volta inconsapevolmente, forse trovo la chiave di lettura del “mio” antiberlusconismo: fatico a scrivere “fenomeno Berlusconi”, perché in questo modo credo si attribuisca all’uomo e al suo pensiero una statura che in fondo non possiede.
Mi spiego meglio. Molti vedono nel Cavaliere di Arcore la causa di tutti, o molti, mali italiani. Personalmente credo sia più opportuno indicarlo come l’effetto di quei mali, enfatizzati ed elevati alla massima potenza. Il viveur di Villa Certosa, in altre parole, è un ottimo rappresentante dell’italianità per come questa si è sviluppata dalla Liberazione ad oggi, e forse andrebbe indagato più come modello antropologico che non sul piano sociale e politico.
In fondo per capire cosa sia oggi l’italianità basta pensare a giorni recenti, in cui si celebrano i funerali di Stato per Mike Bongiorno proprio poco dopo che le Istituzioni hanno dimostrato di aver ignorato la scomparsa di Teresa Strada. Sia chiaro: di Bongiorno poco m’importa, alla sua scomparsa partecipo con la pietà che ci insegna l'aforisma di John Donne. Il punto è che, per quanto possa apparire paradossale e riduttivo, se c'è una cosa che può mostrare le condizioni in cui s'è ridotto questo Paese è proprio un confronto fra le reazioni "istituzionali" ai due decessi, pressochè contemporanei.
Possiamo smettere di odiare Berlusconi, ma un po’ di sano disprezzo per cosa è diventato l’italiano medio io lo manterrei. Ma forse qui riaffiora quel tratto nichilista del mio carattere (credevo d’averlo seppellito assieme alla mia gioventù) probabilmente spinto in superficie da un bicchiere di troppo di Vermentino di Sardegna…

Con amicizia
Francesco “baro” Barilli

venerdì 7 agosto 2009

Caro Battista, io non dimentico Pasolini

Il 27 luglio, sul Corriere della Sera, Pierluigi Battista ha invitato i suoi lettori a dimenticare il Pasolini di “Io so”. Lo conforto: gli italiani non hanno bisogno di simili inviti, già da soli sono bravi a dimenticare i propri intellettuali. Al massimo ne salvano qualche citazione, buona per fare bella figura in un salotto, e tanto basta. L’invettiva di Pasolini di fronte alle stragi di quegli anni (ne sarebbero seguite altre dopo l’articolo del poeta e dopo la sua morte) costituirebbe secondo Battista “l’espressione del peggiore Pasolini, l’esaltazione meno sorvegliata dei vizi che hanno devastato la fibra etica del ceto intellettuale italiano”. Ma soprattutto, sempre secondo la stessa fonte, nelle parole di Pasolini “la ricerca empirica delle prove, e persino degli indizi, diventava esercizio ingombrante, fatica superflua”.
Con queste due citazioni penso d’aver centrato il cuore del commento di Battista e pure il suo principale errore: credere che la ricerca della verità dell’intellettuale debba coincidere (come percorso logico) con quella della Magistratura. Oppure ritenere che le uniche verità sulle stragi che hanno insanguinato l’Italia possano arrivare secondo dinamiche esclusivamente “pratiche” (fatto criminoso, raccolta di elementi e possibili moventi, colpevoli ipotizzati e infine accertati). Peraltro, recentemente abbiamo visto che pure sentenze passate in giudicato non bastano a mettere il sigillo su una verità accertata, se esiste la volontà politica di riscrivere quella data pagina: su Liberazione del 2 agosto Saverio Ferrari, a proposito della strage di Bologna, ha puntualmente descritto i tentativi di ridiscutere l’accertata matrice fascista di quell’attentato.
Il punto è che le sentenze possono essere condivisibili e apparire sensate oppure l’esatto opposto: è tratto distintivo della giustizia umana differenziarsi da quella divina (per chi crede in quest’ultima) non solo per l’assenza della maiuscola o per il suo intrinseco margine di fallibilità. Quel che distingue la giustizia umana è l’assenza di prerogative assolute o taumaturgiche, che invece la società e la politica continuano ad assegnarle, un po’ per semplificazione, molto per affossare la ricerca di altri livelli di responsabilità (del resto Pasolini proprio nel suo “Io so” diceva che “il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia”).
Credo che Battista non abbia colto il senso delle parole di Pasolini. No, lui non sapeva i nomi di chi mise una bomba nella banca di Piazza Fontana, sotto il portico di Piazza della Loggia, o ne avrebbe messa un’altra, anni dopo, alla stazione di Bologna. Ma conosceva le logiche del potere, che risponde alla sola legge dell'autoperpetuazione ad ogni costo. Capiva le finalità politiche (neppure univoche) cui dovevano rispondere le stragi, e lo capiva con i soli mezzi con cui è possibile operare un’analisi di questo tipo: quelli dell’intellettuale, che non pretende di supplire con le proprie riflessioni all’azione della Magistratura. A questa spetta un altro compito, altrettanto importante: l’individuazione di responsabilità penali e personali. I due livelli di ricerca non sono sovrapponibili, ma se svolti egregiamente si completano senza contraddirsi. E penso si possa affermare che quanto emerso, seppure con persistenti margini di ambiguità, su Piazza Fontana e le altre stragi (nell’ambito ambito processuale, nelle ricerche degli storici, nella defunta commissione stragi ecc), abbiano dato ragione a Pasolini.
Un’ultima riflessione. Pensavo che l’articolo di Battista sollevasse un dibattito ampio. Così non è stato: fatta eccezione per qualche risposta apparsa su alcuni blog, i media hanno ignorato la questione. Gli italiani, bravi a dimenticare Pasolini, lo sono altrettanto nel dimenticare Battista. Non tutte le conseguenze della sciatteria di un popolo sono negative.

Francesco “baro” Barilli

lunedì 6 luglio 2009

La replica di Paolo Cucchiarelli ai miei "appunti sparsi"

Se avete letto i miei "appunti sparsi" del 4 luglio sarete interessati a leggere pure la risposta di Paolo Cucchiarelli, che pubblico di seguito, come promesso.

Per la risposta di Paolo, cliccate qui


Aggiungo poche righe in risposta.

1. Cucchiarelli dice “Intanto il libro sta interessando la magistratura, mi dicono”. Ne sono contento; che la Magistratura voglia approfondire la faccenda è anche mia speranza: è quanto intendevo dire quando ho scritto “…se qualcuno (nella Magistratura, nella politica o fra i testimoni dell’epoca) volesse riprendere in mano la matassa e dipanarla, farebbe cosa meritevole e, sono tentato di aggiungere, doverosa”.

2. Ho scritto un lungo appunto sull’arresto di Ventura. Paolo risponde sinteticamente “Il primo arresto non è per la strage ma per associazione sovversiva. Il secondo per la strage”.
La sintesi mi lascia il dubbio di non essermi spiegato bene. Invito Paolo a rileggere quel mio capitoletto sull’arresto di Ventura. Si tratta, come ho già detto, di un’osservazione per nulla polemica (peraltro non tocca i punti nodali del libro), ma solo di una sottolineatura su un passaggio di pag. 410 (“Sapendo delle rivelazioni di Lorenzon … Giovanni Ventura attendeva di essere arrestato per la strage. Lo sarà solo nel marzo del 1972”), che a mio avviso andrebbe articolato meglio in una futura riedizione. Ossia (in una sintesi brutale):
- i primi due arresti di Freda e Ventura sono dell’aprile e dicembre 71 (in mezzo c’è la provvisoria scarcerazione per libertà provvisoria)
- entrambi gli arresti di aprile e dicembre 71 sono per l’associazione sovversiva ecc. e non per la strage (indipendentemente dal fatto che i magistrati stiano già "battendo anche quel chiodo")
- nel marzo 72 viene arrestato Rauti e non Ventura (che è già dentro); pure l’arresto di Rauti, in quel momento, non è per Piazza Fontana.
(tutto questo è valido a meno che non abbia scazzato io nel mettere assieme i pezzi…)

Un saluto a Paolo
Francesco “baro” Barilli

sabato 4 luglio 2009

Ancora su “Il segreto di Piazza Fontana”: appunti sparsi

Come promesso, torno per un’ultima volta a parlare de “Il segreto di Piazza Fontana”. Se dico “per un’ultima volta” non è per tranciare il confronto con l’autore del libro, Paolo Cucchiarelli (di cui pubblicherò un’eventuale risposta con piacere, come ho fatto in precedenza), ma perché credo che il nostro scambio di opinioni si sia fatto via via sempre più interessante, ma sia destinato a finire in una palude in cui ognuno non schioda l’altro dalle proprie convinzioni. Questa situazione è legittima; anzi, dirò di più e credo che Paolo concordi: noi abbiamo fatto e stiamo facendo la nostra parte; ora sta ad altri fare altrettanto…
Mi spiego meglio. Lui ha raccolto moltissimi elementi, quasi fossero i tasselli di un puzzle da ricomporre. E’ riuscito persino – bisogna riconoscerglielo – a ritrovarne di smarriti. Quando si è trattato di comporli in un quadro, ha tracciato un disegno che non mi convince (come ho già detto: non per motivi ideologici, ma logici), ma questa è un’altra faccenda. In altre parole, del suo libro condivido in gran parte la fase analitica; rispetto ma non condivido le conclusioni che ne trae. Io pure ho raccolto elementi e fatto delle riflessioni. In parte hanno costituito la critica al suo libro (prima nell’articolo scritto con Saverio Ferrari e poi in altri commenti su questo blog), in parte stanno costruendo, ormai da tempo, il libro che uscirà a dicembre, e in quel momento potremo aprire un nuovo confronto.
Il punto è che io e Cucchiarelli (come Saverio, Giannuli e altri ancora, ognuno con il proprio bagaglio di convinzioni ed errori, tutti mossi da passione civile) abbiamo fatto quel che possiamo, seguendo ognuno le proprie conoscenze e le proprie intuizioni, con tutti i limiti di queste ultime. Non si può chiedere a scrittori, giornalisti, storici o mediattivisti di risolvere la questione. Ma se qualcuno (nella Magistratura, nella politica o fra i testimoni dell’epoca) volesse riprendere in mano la matassa e dipanarla, farebbe cosa meritevole e, sono tentato di aggiungere, doverosa.
Dunque, in questa occasione non mi soffermerò troppo su temi già affrontati, in cui resterebbero irrisolti i punti di contrasto. Affronterò invece il discorso in alcuni capitoletti (davvero degli “appunti sparsi”). Magari si tratta di dettagli collaterali, ma credo siano meritevoli di attenzione. Eccoli di seguito.

Appunto n. 1: Gli “errori pratici” de “Il segreto di Piazza Fontana
In uno dei miei commenti ricordo d’aver promesso che avrei segnalato alcuni errori del testo. PRECISO che si tratta per la maggior parte di cose secondarie. Le segnalo quindi non per fare “la maestrina dalla penna rossa”, e neppure per aprire polemiche su tali dettagli. Al contrario, le segnalo con spirito costruttivo: si tratta di piccolezze che Paolo, se vorrà, potrà facilmente correggere in una futura edizione della sua inchiesta.

Giovanni o Osvaldo?
Pag. 346: il comandante partigiano detto “Visone” era Giovanni (non Osvaldo) Pesce. Penso sia solo un lapsus. Se Paolo invece parla proprio di un Osvaldo Pesce (che non conosco) non si tratta comunque del comandante “Visone” (morto un paio d’anni fa; per chi non lo conoscesse, leggere qui).

L’arresto di Ventura
Pagina 410: riporto testualmente: “Sapendo delle rivelazioni di Lorenzon … Giovanni Ventura attendeva di essere arrestato per la strage. Lo sarà solo nel marzo del 1972”. Se ho capito bene (e se ho controllato altrettanto bene: magari nel libro Paolo riprende in altre parti questo dettaglio e lo spiega meglio – in tale caso mi scuso con lui: mi sono fatto le mie note a margine sul suo volume, ma in 700 pagine qualcosa in questo momento può sfuggirmi) Cucchiarelli fa risalire l’arresto di Ventura per Piazza Fontana (la precisazione è importante, vedremo poi perché) al marzo 72, ossia contestuale all’arresto di Rauti: non è del tutto esatto. Sul punto, c’è molta confusione, anche in testi rispettabilissimi, causati a mio avviso solo dall’aver dovuto incrociare elementi e notizie a distanza dai fatti.
Andiamo con ordine:
- Lucarelli nel suo libro/dvd dice (pag 49) "nel marzo del 72 i magistrati di Treviso fanno arrestare F. Freda, G. Ventura e P. Rauti". Quindi sembra ritenere contestuale l'arresto dei tre.
- Sempre Lucarelli, nella cronologia, dice però una cosa diversa, E' a pagina 80: l'arresto di Freda e Ventura è datato 13 aprile 71, mentre Rauti è in manette il 4 marzo 72.
- Dianese e Bettin nel loro libro (“La strage” – Feltrinelli) nella cronologia e nell'appendice coi nomi (pagine 200 e 204) sembrano più precisi. Su Freda: "Viene arrestato per la prima volta il 12 aprile 71 … Una seconda, nel marzo 72". Ma secondo me sbagliano pure loro (anche qui: è un dettaglio, nell’ambito di un lavoro ben fatto).
- Anche su Internet (Wikipedia) viene data la notizia SIA dell'arresto di Freda e Ventura dell’aprile 71, SIA quello di Freda e Ventura contemporaneo, o di poco successivo, a quello di Rauti del marzo 72. L’arresto contestuale mi sembra sia menzionato anche nel libro di Calvi e Laurent (ma in questo caso sto andando a memoria: non ho il libro sotto mano).

Ho recuperato altre fonti, tra cui un articolo del Corriere della Sera del 5 marzo 72, e sul punto mi sono sentito anche con Saverio Ferrari che ha controllato i suoi documenti. Riporto e sintetizzo l’articolo del Corriere: "Roma, 4 marzo ... hanno disposto di trasferire il giornalista Pino Rauti dal carcere romano … Rauti era stato arrestato IERI in relazione ai fatti che, A SUO TEMPO HANNO CONDOTTO ALL'ARRESTO dell'editore Giovanni Ventura … e  … Franco Freda"

La situazione, in estrema sintesi, per come l’ho ricostruita insieme a Saverio, è questa:
- Freda e Ventura vanno in carcere nell'aprile 71 (il mandato di cattura è del 13 aprile)
- escono, per concessione della libertà provvisoria, nel luglio 71
- vanno ancora dentro nel dicembre 71, dopo che il 5 novembre viene trovato il famoso deposito di armi nella soffitta di Castelfranco Veneto (il nuovo mandato d’arresto è del 12 dicembre)
- 3 marzo 72: a Roma finisce in manette Rauti (Freda e Ventura sono ancora dentro, ma “solo” per armi e associazione sovversiva)
- 4 marzo 72: Rauti viene trasferito nel carcere di Treviso.

La domanda è: dopo il 3-4 marzo 72 peggiorano da subito anche le accuse a carico di Freda e Ventura? In realtà parrebbe di no; o meglio: peggiorano “implicitamente”; lo faranno esplicitamente in modo più graduale. E’ chiaro che i magistrati avevano già intuito che la loro indagine li stava portando a P. Fontana, ma in quel momento - almeno a livello di capi d'accusa ufficiali - le "carte" che emettono parlano ancora solo di associazione sovversiva, detenzione armi e di attentati “solo” fino all'agosto 69. Quindi, è sbagliato dire che nel marzo 72 Freda, Ventura e Rauti sono arrestati assieme (come dicono Lucarelli e altri), ed è errato pure parlare dell'arresto del marzo 72 (arresto di Rauti, NON di Ventura) come di un arresto "per Piazza Fontana": che i magistrati avessero capito di essere sulla buona strada anche per Piazza Fontana è pacifico, ma ufficialmente gli atti che emettono sono più prudenti e – giustamente – si limitano a quanto può essere provato fino a quel momento: le bombe di primavera-estate e la generica associazione sovversiva.
Dopo il marzo 72, le indagini su Piazza Fontana passeranno successivamente a Milano (D'Ambrosio - Alessandrini – Fiasconaro). Rauti viene scarcerato il 24 aprile 1972 e verrà prosciolto in fase istruttoria nel processo di Catanzaro. Freda e Ventura sono ufficialmente incriminati per Piazza Fontana nell’agosto 72 e rinviati a giudizio nell’agosto 74. Successivamente, la Cassazione decidi di unificare i filoni (da una parte Valpreda ecc, dall’altra il “filone nero”) in un unico processo e da qui in avanti, come si suol dire, “è storia”.

La colpevolezza di Digilio
Su questo mi sono già soffermato nell’articolo scritto con Saverio Ferrari, e su questo particolare anche Cucchiarelli mi sembra aver riconosciuto l’errore. Si tratta, come già detto, di una faccenda formale, ma non priva di significato: Digilio non va annoverato fra gli assolti della strage; dal punto di vista puramente tecnico, al contrario, è l’unico colpevole accertato processualmente (come già esposto: per aver svolto una perizia tecnica sull’esplosivo), pur avendo ottenuto la prescrizione e pur essendosi visti riconoscere i benefici dovuti alla sua collaborazione.

La tomba di Pinelli e l’antologia di Spoon River
Pag. 621: Cucchiarelli scrive che “sulla tomba di Pino Pinelli c’è proprio una poesia di quell’antologia che, un Natale, il Commissario Calabresi regalò all’anarchico”. In realtà la circostanza è diversa e fu spiegata sia da Licia Pinelli nell’intervista rilasciata a Scaramucci (“Una storia quasi soltanto mia”) sia, se non erro, da Mario Calabresi in “Spingendo la notte più in là”. Calabresi regalò a Pinelli "Mille milioni di uomini" (di Enrico Emanuelli); Pinelli ricambiò con l’Antologia di Spoon River (di Edgar Lee Masters), che era il libro preferito non solo di Pino, ma pure della moglie Licia.

Appunto n. 2: La banca deserta?
Ho già detto, nell’articolo scritto con Saverio Ferrari, che il ragionamento fatto da Cucchiarelli sui timer (da 60 e 120 minuti) è molto interessante. Per precisione di cronaca riporto quel nostro passaggio: “Cucchiarelli fa una lunga dissertazione sui timer (da 60 e 120 minuti) comprati dal gruppo di Freda e Ventura per Piazza Fontana e in generale per l'operazione del 12 dicembre. In particolare si sofferma sull'intercambiabilità e sulla modificabilità dei "dischi orari". Il suo intento è dimostrare che un timer da 120 minuti potesse essere trasformato in uno da 60, ingannando così un potenziale "attentatore in buona fede", il quale si sarebbe convinto di posare un ordigno la cui esplosione era stata programmata due ore dopo l'innesco, mentre in realtà il tempo concesso alla detonazione era dimezzato”.
Ora, però, m’è venuto un altro dubbio. Vorrei evitare di “impelagarmi” nuovamente in opinioni contrastanti sull’identità di chi posa la bomba col timer e pure sul fatto se questa sia “singola” o “raddoppiata”. Riporto quindi – solo per correttezza verso un eventuale lettore che leggesse solo questo articolo senza conoscere nulla dei precedenti – le due teorie in campo. Secondo Cucchiarelli quell’uomo è Valpreda e – sempre a suo avviso – una seconda bomba, stavolta con innesco a miccia, viene deposta accanto alla prima, forzandone l’esplosione prima del tempo. Secondo me l’attentatore è uno solo; in ipotesi potrebbe comunque trattarsi di un elemento di secondo piano nell’organizzazione neofascista, e quindi – sempre in ipotesi – potrebbe comunque essere un uomo convinto che la corsa del timer sia di 120 e non di 60 minuti (ripeto: la cosa è molto più complessa; per approfondimenti, vedere gli articoli, i commenti, le risposte precedenti ecc.). Siccome non voglio riaprire neppure la questione “attentatore doppio/ attentatore singolo”, e nemmeno quella sulla sua identità, preciso che ora mi soffermerò solo sull’uomo che porta la “bomba a timer” chiamandolo Pinco Pallino: per la natura del mio dubbio, che vado di seguito ad esporre, non conta né la sua identità, né la sua matrice ideologica, né il fatto che sia o meno l’unico attentatore.
Ecco il dubbio: la bomba esplode alle 16,37. Calcoliamo i “tempi morti” a ritroso da quel momento. Alle 16,37 l’attentatore ha lasciato la bomba e si è già allontanato; prima si è seduto al tavolo e, per non destare sospetti, probabilmente si è trattenuto lì per qualche minuto, magari fingendo di dover compilare un modulo o di dover leggere delle carte; prima ancora ha fatto un breve tragitto (in parte in taxi e in parte a piedi; oppure solo a piedi: anche questo ora conta poco) per arrivare alla banca; prima ancora ha innescato la bomba (oppure l’ha ritirata dove è stata appena innescata; o ancora l’ha portata nel luogo dove viene innescata e dove, di conseguenza, è partita la corsa del timer).
Ora comprimiamo al massimo queste operazioni: secondo me ci vogliono 20-30 minuti. Quindi il timer comincia a correre fra le 16,07 e le 16,15. Forse un po’ prima; difficilmente dopo. Dunque, Pinco Pallino crede che il destino della bomba sia di esplodere fra le 18,07 e le 18,15, circa. Lui, però, ha visto che la banca è piena zeppa di gente: può anche aver pensato che, di lì a poco, usciranno tutti, ma gli impiegati?! Generalmente il venerdì si fermano oltre l’orario del pubblico: devono chiudere i conti,  sistemare le carte e i documenti per il lunedì successivo. Se anche il “nostro” ha pensato che fra le 16,30 e le 17,00 usciranno i clienti, davvero non pensa che alle 18,00 o alle 18,30 non ci sia ancora il personale della banca?
A me sembra difficile che Pinco Pallino sia davvero convinto che l’ordigno SICURAMENTE farà solo danni materiali alle cose (possono avergli mentito, oltre che sull’ora dell’esplosione, anche sulla potenzialità dell’ordigno? Per carità, come ipotesi ci sta pure quella…).
Ripeto (e concludo, sul punto): il mio è solo un semplice dubbio che non riesco a spiegarmi. Mi piacerebbe sapere il parere di Cucchiarelli, su questa faccenda: magari qualcosa mi sfugge.

Appunto n. 3: La morte di Pinelli
Paolo Cucchiarelli ha scritto (se non sbaglio non solo in risposta all’articolo firmato da me e Saverio, ma anche in riferimento ad altri commenti) che ci sarebbe un certo imbarazzo nell’affrontare la sua ricostruzione della morte del ferroviere anarchico. Ovviamente non posso rispondere per altri e lo faccio solo per quanto mi riguarda.
Secondo me, e l’ho accennato nell’articolo con Saverio, dal punto di vista della ricostruzione della dinamica della caduta Cucchiarelli ci ha preso. Dirò di più: se leggete il già citato “Una storia quasi soltanto mia” vedrete che anche Licia Pinelli all’epoca (il libro-intervista è del 1982) ipotizzò fra le altre anche una ricostruzione simile: un alterco degenerato al termine dell’interrogatorio (aggiungo che, come dice Cucchiarelli, “a logica” l’indiziato maggiore per la colluttazione-alterco sembra davvero essere Panessa). Paolo, dal canto suo, ha perfettamente ragione anche nel dire che “l’ipotesi alterco” spiegherebbe anche quella specie di lapsus di D’ambrosio, che nel formulare la versione del malore aggiunse una frase sibillina (quasi “una voce dal sen fuggita”) sul “gesto di difesa nella direzione sbagliata”. Una frase che m’aveva sempre portato molti dubbi, che Cucchiarelli giustamente sintetizza in “ma difesa da cosa?!”: effettivamente è la prima domanda che una persona di buon senso dovrebbe porsi…
Adriano Sofri, ne “La notte che Pinelli”, sottolinea che, in realtà, in quel momento l’interrogatorio non era alla fine ma – al contrario – in una fase cruciale (anche su questo convergiamo pure io e Cucchiarelli). Cruciale per che motivo? Paolo ha la sua teoria: in essa, le due bombe scomparse del 12 dicembre spiegano sia i movimenti di Pinelli di quel pomeriggio, sia la reticenza di Pinelli nello spiegare quegli spostamenti, sia il fatto che in Questura le accuse e i toni nei suoi confronti lievitano fino al drammatico epilogo. Anche in questo caso, la ricostruzione di Paolo l’ho brutalmente sintetizzata: per migliori specifiche rimando agli articoli precedenti, alle risposte di Paolo e soprattutto al suo libro.
Personalmente credo invece che l’alterco che avrebbe originato la caduta sia dovuto a un mix di situazioni: la testimonianza di Rolandi su Valpreda; la certezza, da parte degli inquirenti, di dover stringere i tempi, perché il giorno dopo sanno che Occorsio a Roma formalizzerà il riconoscimento e quindi, da quel momento, si dovrà dire che l’intera “macchina del terrore” (per citare un quotidiano dell’epoca) è stata individuata; lo stress che, dopo lunghe ore e giorni di lavoro, spinge la Questura ad accelerare i tempi e a non “andare troppo per il sottile”, per usare un eufemismo.
Tutti questi motivi, a mio avviso, rendono valida l’ipotesi di un alterco particolarmente acceso, dopo quello che sente Valitutti circa mezz’ora prima, indipendentemente dall’ipotesi che dà Cucchiarelli sulle due bombe scomparse e sul ruolo di Pinelli nella giornata del 12. La reticenza di Pinelli circa il suo alibi potrebbe essere spiegata semplicemente con la volontà di tacere l’incontro con un personaggio ambiguo (nonché compromesso e compromettente) come Sottosanti, ma questa, sia chiaro, è solo una mia ipotesi.
Pure le menzogne di Guida e Allegra possono essere spiegate, come dice Paolo, con l’esigenza di tacere l’indicibile. Ma, a mio avviso, può trattarsi anche solo del risultato imperfetto di una versione (peraltro successivamente disgregata in più versioni) rabberciata alla bell’e meglio nella concitazione del momento. Ricordo una frase di Licia Pinelli, sempre da “Una storia quasi soltanto mia”: "Pino è stato il granellino di sabbia che ha inceppato il meccanismo. Dopo la bomba di Piazza Fontana avevano cominciato la caccia agli anarchici, che erano la parte più debole… la morte di Pino è stata un infortunio sul lavoro, per loro sarebbe stato più comodo metterlo in galera con gravi imputazioni e tenerlo dentro per anni…". In altre parole: una morte scomoda e ingombrante, che costringe i funzionari e i dirigenti della Questura milanese a inventarsi delle pezze che, invece di coprirli, evidenziano i buchi e ne fanno sospettare altri.
Per chi fosse interessato ad altre mie considerazioni sul caso Pinelli rimando a questi due articoli:
Spingendo la verità storica un po’ più in là. Lettera a Mario Calabresi
Recensione: “La notte che Pinelli”, di Adriano Sofri

Appunto n. 4: Patmos e Pasolini
Bene ha fatto Cucchiarelli a ricordare quella poesia nel finale del suo libro. Credo che se chiedessimo ad una qualsiasi persona, mediamente acculturata ed appassionata a Piazza Fontana, di associare il nome di Pasolini alla strage del 12 dicembre tutti risponderebbero citando “Io so”. Articolo bellissimo e giustamente ricordato, ma spiace constatare che pochi sanno che Pasolini scrisse una poesia (forse è più corretto definirla poema) sulla strage. La scrisse di getto, quasi come uno sfogo, immediatamente dopo il fatto e prima che il bilancio si facesse ancora più tragico (e prima ancora della morte di Pinelli), tanto è vero che in Patmos sono menzionate solo 13 vittime (tre se ne aggiunsero nei giorni seguenti e uno – Vittorio Mocchi – morì alcuni anni più tardi, dopo aver lungamente sofferto per le conseguenze delle ferite subite; anche lui fu riconosciuto vittima della strage).
Credo possa far piacere a Paolo conoscere un aneddoto e un’anticipazione. Confesso che pure io non conoscevo Patmos, fino a quando non ne sentii recitare alcuni passi da Francesca Dendena, figlia di una delle vittime, il 12 dicembre 2007, in occasione di un’iniziativa in commemorazione della strage a cui ero invitato pure io. La forza espressiva dei versi di Pasolini, unita al valore simbolico del sentirli recitati proprio da Franca, mi colpì profondamente. Quando, alcuni mesi dopo, un editore mi propose di scrivere un racconto a fumetti su Piazza Fontana, accanto a molti dubbi ho avuto, fin dall’inizio, una sola sicurezza: nel fumetto avrei inserito alcuni passaggi da Patmos; in particolare il brano iniziale, quello finale e tutti i riferimenti alla vittime… E così ho rivelato una prima anticipazione del libro, svelando pure che si tratta di un racconto a fumetti, che come ho detto in passato non sarà una controinchiesta, ma una sorta di omaggio che fonde la ricerca storica con un livello più “lirico” ed evocativo.

A questi appunti sparsi mancano ancora alcuni dettagli, ma mi sono “rimasti nella tastiera” per questioni di tempo. Magari ci tornerò più avanti, per ora è tutto.

Francesco “baro” Barilli

giovedì 25 giugno 2009

Un’altra mia risposta su “Il segreto di Piazza Fontana”

Premetto che, al di là del titolo dell’articolo, questo non è il nuovo commento, che ho promesso, al libro di Paolo Cucchiarelli. Quel commento lo scriverò, tranquilli, datemene il tempo. Chi mi conosce sa che non pratico questa attività come professione principale: anzi, mi dedico alla scrittura nel tempo libero (le cose cambieranno in futuro? Lo spero, ma non ci conto molto). Inoltre, problemi personali si aggiungono in questo periodo a quelli consueti, per cui devo impiegare il mio tempo in altre faccende (come si può vedere anche dall’ora in cui scrivo) e nei prossimi giorni andrà pure peggio…
Intervengo, quindi, solo perché sul gruppo su Facebook dedicato a “Il Segreto di Piazza Fontana” ho visto emergere una questione nuova. Cucchiarelli segnala di aver chiesto a Liberazione lo spazio per una sua replica all’articolo firmato da me e Saverio Ferrari apparso sul quotidiano il 20 giugno, ed evidenzia con amarezza che lo spazio gli è stato negato.
Intervengo, dunque, esclusivamente su tale argomento con alcune puntualizzazioni.

- L’articolo in questione, come detto apparso il 20 giugno, è una versione ridotta di quello pubblicato per intero sul mio blog, sul sito di Saverio, su altri siti internet e pure sul già citato gruppo di Facebook.

- La decisione di pubblicare sul mio blog la replica di Paolo è mia, perché ritengo che chi fa questo lavoro (sia per professione, come Cucchiarelli, sia per sostanziale “hobbysmo”, come me) abbia il dovere di dare spazio alle critiche, anche severe; basta che si resti nel limite dell’educazione. Io ho giudicato (con Saverio) severamente il libro, ed era mio/nostro diritto. Cucchiarelli ha risposto in modo tagliente ma civile: era suo diritto e mio dovere dargli spazio (anche perché un blog personale ha obblighi di “netiquette” diversi da quelli di un sito o di un giornale). Da lì in poi lo scambio di opinioni è proseguito (e proseguirà) con – credo – utilità intellettuale per entrambi.

- Non sono stato minimanmente coinvolto nella scelta di Liberazione di non dare spazio alla replica di Cucchiarelli. Non sono giornalista, redattore e neppure collaboratore free lance del giornale. Ne sono un “lettore attivo”; sono un intellettuale (credetemi, uso questo termine assolutamente senza pomposità; se non erro è Antonio Tabucchi ad aver definito intellettuale “chiunque usi la propria intelligenza con metodo”) che a volte invia dei pezzi, a volte pubblicati a volte no (sta nel gioco). Dunque la decisione del giornale non mi vede coinvolto e non ne conosco le motivazioni che la sottendono (le apprendo solo da quanto scrive Cucchiarelli sul gruppo Facebook). Dico solo una cosa: sul mio piccolo spazio (questo blog) proseguirò nella mia linea di dare voce alle repliche di chi la pensa diversamente da me. Verrà magari un momento in cui ci si accorgerà che l’uno non convince l’altro, fermo restando il rispetto per l’altrui posizione e l’arricchimento vicendevole che – in ogni caso – ognuno avrà grazie al contributo opposto. In quel momento la discussione si fermerà da sé, ma con la consapevolezza che non è stata inutile.

- Paolo Cucchiarelli suggerisce che io non so che pesci pigliare e come comportarmi con gli elementi nuovi della sua inchiesta, relativamente al mio libro su Piazza Fontana. E dice di sperare che io sia tormentato da mille dubbi. Non la prendo come un’osservazione negativa, ma non è del tutto vero e devo puntualizzare alcune cose. Ho sempre ritenuto il dubbio il miglior amico di un pensatore. Non mi fanno paura i dubbi, ma bensì le certezze granitiche, l’assolutismo, la fede cieca in una convinzione. In una parola: l’ottusa chiusura “all’altro”.
In realtà, però, il mio libro su Piazza Fontana l’ho pensato fin dall’inizio come ad una cosa che fonde un livello evocativo con uno – più in filigrana – fattuale o documentale. Non è una controinchiesta, per intenderci. Peraltro, ho già spiegato di continuare a non condividere il succo de “Il segreto di Piazza Fontana”. Ne apprezzo lo sforzo di ricerca (qua e là ho trovato degli errori anche sul piano documentale, ma non importanti. Comunque, ne parleremo), continuo a non condividerne le conclusioni. Che trovo sbagliate (e qui rispondo ad un’altra velata obiezione di Cucchiarelli) NON perché “inopportune politicamente” (cosa di cui, in ipotesi, non m’importerebbe nulla) ma, semplicemente, perché… sbagliate… Ma questo è il piano fattuale su cui, come dicevo, tornerò un’altra volta, non appena il casino personale di questi giorni sarà passato (spero…). Tutta questa lunga digressione per dire “ben vengano i dubbi”, ma il libro di Cucchiarelli in realtà mi spingerà a rivedere e a supportare meglio l’apparato redazionale che farà da corollario al libro, non il libro in sé.

- un’altra curiosità apparsa nel succitato gruppo di Facebook è: sapere quanti e chi tra i giornalisti di Liberazione, negli anni '70 era nell'Autonomia, nella sinistra extra-parlamentare, in Potere Operaio, Lotta Continua eccetera. Non ne ho la più pallida idea e la cosa, in una scala da uno a dieci, mi interessa “meno 12”. Faccio però ad una riflessione: siccome spesso si parla di superare le vecchie ideologie, invito tutti a non pensare che se Tizio (vecchio appartenente al gruppo extraparlamentare di sinistra “Pincopallino”) scrive o pensa oggi certe cose (questo non vale solo per Piazza Fontana) lo faccia solo in nome della sua vecchia appartenenza ideologica che gli darebbe dei paraocchi. Anche nella cosiddetta sinistra radicale siamo un po’ più evoluti del cane di Pavlov… Io ad ogni buon conto, ho un pedigree tranquillo: negli anni 70 al massimo giocavo coi mattoncini Lego…

Francesco “baro” Barilli

venerdì 19 giugno 2009

La risposta di Paolo Cucchiarelli (autore de “Il segreto di Piazza Fontana”)

Per leggere la risposta di Paolo Cucchiarelli, vedi file allegato


Caro Cucchiarelli, caro Castronuovo,
solo alcuni appunti sparsi:
non c’è bisogno di minacce, più o meno velate, perché io pubblichi la replica: personalmente trovo che pubblicare una risposta, anche critica (io, per motivi di tempo, per ora sono riuscito solo a vederla di fretta, ma mi sembra che quello sia il tono, e non immaginavo nulla di diverso) sia solo questione di educazione. Chi mi conosce sa che non mi manca.
Accolgo dunque la richiesta di Manlio Castronuovo e pubblico la replica di Paolo Cucchiarelli. La pubblico come documento allegato (è lungo e “formattato” in modo piuttosto chiaro: anche per i lettori di questo blog sarà più facile leggerla).
A quel punto, mi auguro sia fatto altrettanto per una mia (o nostra – con Saverio, intendo) eventuale controreplica, a partire da questa.
Una cosa, però: a me il dibattito va bene, ma Paolo mi sembra partire col piede sbagliato, adombrando “ordini di scuderia”; e pure nella sua risposta, per quel che ho potuto leggere, ci sono elementi sbagliati (non intendo a livello concettuale – in questo momento non mi soffermo su quelli – ma a livello di approccio). Parlo di accuse di furberie, di aver taciuto certe cose, addirittura di plagio verso Giannuli o il Manifesto eccetera. Sia chiaro: se un libro è lungo 700 pagine una recensione-commento non è che debba essere lunga 200 solo per far piacere all’autore… Quindi, se su certe cose io e Ferrari non ci siamo soffermati non è perché non le si sia lette o perché le si ritenga “scomode”, come insinua Paolo. Vorrei fosse chiaro: io, su Piazza Fontana non ho una verità precostituita. Forse non l’ha nemmeno Cucchiarelli, però – questo è il mio parere su cui tornerò alla fine di queste note – ne ha una di cui si è “innamorato”. E gli innamorati, si sa, tendono a non vedere i difetti dell’oggetto del proprio sentimento.

Se Cucchiarelli vuole vedere ad ogni costo, nel commento scritto da me e Saverio, della malafede, non posso farci nulla. Dal canto mio posso rassicurarlo con una frase molto semplice: gli auguro che il suo libro sia letto e abbia successo. Mi auguro pure che i suoi lettori, se vogliono conoscere la storia di Piazza Fontana, non si fermino “solo” a questo lavoro (che considero prezioso, pur non condividendone le conclusioni) ma decidano di allargare le proprie conoscenze anche con altri lavori.

Faccio un’altra chiosa sugli “ordini di scuderia” e preciso: ho quasi 44 anni. Ne ho passati 37 senza essere iscritto a nessun partito; poi ne ho passati 5 iscritto a Rifondazione (per motivi complessi con cui non voglio annoiarvi: diciamo che era il tentativo di “fare qualcosa” all’interno di una struttura organizzata). Quest’anno non ho rinnovato la tessera e posso tranquillamente passare gli anni che mi restano da non iscritto a nessun partito, ricollegandomi alla scelta dei primi 38 (oddio: i primi 18 forzatamente, i successivi 19 deliberatamente) e vivendo felice. Faccio quel che faccio, scrivo quel che scrivo, penso quel che penso, solo perché “lo sento”: per passione intellettuale e morale. Tutto qui. Magari sbagliando, ma senza fini occulti.

L’accusa di plagio verso Giannuli o il Manifesto, poi, è quella che (per mia inclinazione personale) mi ha maggiormente ferito. A tale accusa non posso opporre altro se non una richiesta di credere alla mia buona fede: l’articolo di Giannuli l’ho letto quando già io e Saverio avevamo ormai completato il nostro lavoro, e non ci ha influenzato. Al limite, sarebbe Cucchiarelli a doversi fare una domanda: “ma se Barilli, Giannuli, il Manifesto e Ferrari arrivano a conclusioni analoghe, non sarà che magari qualcosa nel mio lavoro non li ha convinti? Non sarà che alcune ‘prove’, che io voglio vedere come tali, forse non sono così solide, ma sono – almeno per loro – suggestioni? Non è che dovrei ragionare sulle loro critiche, anche a costo di mettere in dubbio mie convinzioni consolidate?”. Al contrario, sembra che Paolo preferisca pensare anche a noi (io, Giannuli, il Manifesto e Ferrari, e anche Sofri nella sua rubrica - http://www.ilfoglio.it/piccolaposta/216 – è stato molto critico verso “Il segreto di Piazza Fontana”) come a marionette teleguidate, o a persone accecate da paraocchi ideologici…
Facciamo così, anche in questo caso, gioco a carte scoperte e dico: per me Cucchiarelli ha scritto quel che ha scritto in perfetta sincerità. Io non lo condivido, ma credo che alla base delle sue convinzioni – per me erronee – ci sia solo, come ho accennato prima, una sorta di “innamoramento” verso un’inchiesta che lo ha appassionato per dieci anni; un innamoramento che ha consolidato in lui quelle opinioni. Dietro “Il segreto di Piazza Fontana” non c’è nessuna “strana manovra” dell’autore (ma, sottolineo, nel mefitico clima politico in cui viviamo le manovre possono purtroppo innestarsi a posteriori, al di là della volontà degli autori).
A me, basterebbe che Cucchiarelli formulasse un uguale riconoscimento verso me e Saverio: nessun “ordine di scuderia”, nessun plagio, nessuna malafede nell’articolo che abbiamo scritto. Per me la “polemica Barilli-Cucchiarelli” si chiude qui. Io non ho in mano la verità su Piazza Fontana, né mi sono affezionato per “fedeltà alla linea” (quale, poi?!) ad una verità precostituita; spero che anche Paolo si convinca di non esserne diventato l’unico depositario.

Francesco “baro” Barilli

P.S.:  solo una precisazione fattuale, cioè nel merito del libro e del nostro articolo. Cucchiarelli scrive “Mi fa specie poi di Ferrari che sfruttando un mio suggerimento di qualche anno fa si e’ chiesto su internet (controllate) “Quante erano le bombe il 12 dicembre?” tranne ora contestare il tutto se la cosa non gli conviene nel passaggio su Valpreda.”
Saverio non ha mai rinnegato di aver scritto delle due bombe in più (se non erro, non solo su internet, ma pure in un articolo su Liberazione), anzi!!! Del particolare abbiamo discusso anche recentemente, prima ancora dell’uscita del libro di Cucchiarelli. Alle due bombe in più, in altre parole, crediamo anche noi; semplicemente la spiegazione che diamo è diversa (e lo abbiamo scritto): “Ad esempio, tutta la vicenda delle due bombe scomparse potrebbe avere ben altra spiegazione: il loro ritrovamento potrebbe essere stato impedito per lo stesso motivo per cui fu fatta brillare la bomba alla Commerciale Italiana, ossia per evitare che si risalisse in breve tempo alla matrice fascista degli attentati”. Questo solo per chiarezza, non per riaprire la polemica.

giovedì 18 giugno 2009

"Il segreto di Piazza Fontana": un'occasione persa



"Il segreto di Piazza Fontana", scritto da Paolo Cucchiarelli e uscito per l'editore Ponte alle Grazie (pag. 704, € 19,80), è un lavoro interessante e inquietante nella prima parte, sconcertante e irritante nella seconda. Fonde elementi di inchiesta a voli pindarici dell'autore - che si fanno via via più fantasiosi, depotenziandone il contenuto - e appare viziato alla base da un difetto: il cadere in ricostruzioni azzardate, con concessioni alla più sfrenata dietrologia. Un limite che rende il libro non una sorta di verità definitiva sulla "madre di tutte le stragi", come è stato pubblicizzato, ma un contributo che rischia di mettere in ombra persino la parte di verità già accertata.

Le due bombe nella banca, quelle "scomparse" e "l'ingenuità" degli anarchici
Quel giorno, alla Banca nazionale dell'agricoltura, sarebbero state portate due bombe. Una di matrice anarchica; dotata di timer e trasportata nella banca da Pietro Valpreda, era destinata a un attentato dimostrativo, dovendo esplodere quando gli uffici erano già chiusi e privi di persone. La seconda, più potente, sarebbe stata portata dai fascisti; dotata di accenditore a strappo e di una miccia, fu fatta esplodere prima di quella anarchica, innescando forzatamente pure questa. Fu l'ordigno a miccia a causare la strage, e la strategia era finalizzata ad addossare l'attentato alla sinistra. Più precisamente, i fascisti non intendevano fermare il proprio depistaggio a poche schegge dell'ambiente anarchico, ma volevano arrivare fino all'editore Giangiacomo Feltrinelli. In questa ottica Valpreda, pur restando sostanzialmente innocente, torna ad essere figura assai discutibile: ingenuo burattino dei fascisti, stragista involontario, testa calda che si accompagnava a frequentazioni dubbie, mentitore per necessità. Un conto è però ricordare Valpreda come un ingenuo (anche commentatori più benevoli con l'anarchico lo ricordano così), ben altra cosa è descriverlo come una marionetta teleguidata che segue indicazioni altrui senza porsi domande o dubbi: il suo comportamento, nella ricostruzione di Cucchiarelli, rasenta più l'imbecillità che l'ingenuità. Si pensi solo che avrebbe ritirato la bomba, da collocare alla banca, nella sede degli studenti greci simpatizzanti col regime dei colonnelli...
Gli attentati certi del 12 dicembre '69 furono 5. A Milano, oltre che in Piazza Fontana, un ordigno venne ritrovato inesploso alla Banca commerciale italiana di Piazza della Scala. Fu fatto frettolosamente brillare, con la conseguente compromissione di materiali che potevano rivelarsi utili nelle indagini. Altre tre bombe furono collocate a Roma. Una esplose nei sotterranei della Banca nazionale del lavoro. Le altre due scoppiarono in successione presso l'Altare della Patria.
Secondo Cucchiarelli quel giorno a Milano sarebbero falliti altri due attentati. Questa voce fu riportata già da alcuni quotidiani nei giorni successivi il 18 dicembre 69: i giornali riferirono di una conferenza stampa tenuta il giorno precedente dagli anarchici del circolo del Ponte della Ghisolfa. Secondo tale fonte, la sera del 12 dicembre sarebbero stati ritrovati altri due ordigni inesplosi, uno in una caserma militare e uno in un grande magazzino; la Questura milanese smentì la circostanza. Ne "Il segreto di Piazza Fontana" si ipotizza che anche questi due ordigni fossero di matrice anarchica, e che pure questi dovessero essere manomessi o raddoppiati dai fascisti, per rendere più pesante il bilancio stragista.
E qui si torna alla "stupidità" degli anarchici, che doveva essere, se si vuol credere al libro, una loro caratteristica endemica: secondo l'autore è Giovanni Ventura a portare l'11 dicembre due bombe ai coniugi Corradini, e sempre secondo Cucchiarelli si tratta proprio dei due ordigni "scomparsi". Va sottolineato che i Corradini erano attivisti anarchici tornati in libertà solo il 7 dicembre, dopo mesi di carcere per gli attentati del 25 aprile, un'accusa per cui buona parte del loro gruppo era ancora detenuta. In questo contesto appare inverosimile che due persone da poco scarcerate si espongano con leggerezza a una simile operazione: per i Corradini si andrebbe oltre l'imbecillità...

Il ruolo di Pinelli e la sua morte
Pure il ferroviere anarchico dal libro esce innocente, ma non privo di macchie. Quel giorno Pinelli avrebbe intuito la trappola fascista in cui stavano per cadere i suoi compagni e si sarebbe adoperato per evitare che le altre due bombe scoppiassero a Milano. Per questo avrebbe fornito un alibi falso a chi lo interrogava, facendo insorgere sospetti sul suo conto; nella concitazione dell'interrogatorio, sarebbe nata una colluttazione, sfociata nella mortale caduta dal quarto piano della Questura milanese.
Nel caso Pinelli, la ricostruzione della dinamica della caduta appare valida, anche se non viene aggiunto nulla di nuovo al panorama, che già contemplava la colluttazione e la morte "incidentale" tra le ipotesi.
Da sottolineare - anche se a livello di pura aneddotica - che se gli altri anarchici sono rappresentati come sciocche marionette, secondo Cucchiarelli Pinelli avrebbe mandato messaggi cifrati su Valpreda addirittura utilizzando l'enigmistica (pag. 246)! Ci sfugge, in un simile ambiente, chi avrebbe potuto coglierli: certo non i suoi compagni.

Quando la dietrologia inganna
Come già accennato, Cucchiarelli ha sicuramente svolto un grande lavoro di documentazione, e - almeno per quanto riguarda la prima parte del libro - si può supporre che le intenzioni fossero sincere. In un video sul web (C6.tv) ha dichiarato "Gli anarchici sono rimasti vittime di una trappola, predisposta nel tempo (durante tutto il 69, con l'aiuto e la copertura dello stato e dei servizi segreti) affinchè fossero il capro espiatorio, coloro che dovevano pagare per questa trappola". Affermazione nella sostanza condivisibile, ma non c'era bisogno di un lavoro così imponente per formularla. Il lavoro giudiziario su Piazza Fontana è stato già notevole: certo, incompleto sul piano degli esiti penali e per questo deludente, ma molte cose sono state appurate, specie nell'ultima istruttoria, conclusa in Cassazione il 3 maggio 2005. In Veneto fu costituito, nell'alveo di Ordine Nuovo, un gruppo eversivo che aveva cervelli e manovalanza principalmente nelle cellule di Padova e Mestre. E' in questo ambito che vengono realizzati gli attentati del '69, da quelli incruenti della primavera-estate fino a quello tragico del 12 dicembre. Per quanto riguarda responsabilità personali nessuno è stato condannato, ma su Franco Freda e Giovanni Ventura, principali esponenti padovani del gruppo, tutti e tre i gradi di giudizio hanno espresso una valutazione - citando un commento del Giudice Salvini scritto il 15 maggio 2005 per il periodico dell'ANPI - di "colpevolezza storica, anche se non traducibile in una sentenza di condanna", essendo i due soggetti già stati assolti in un altro processo e per il noto principio giuridico secondo cui nessuno può essere processato due volte per lo stesso reato, se nel frattempo è stata già emessa una sentenza definitiva di assoluzione. In questo quadro fa eccezione Carlo Digilio, e sul particolare correggiamo un errore - formale ma di un certo rilievo - di Cucchiarelli. Ne "Il segreto di Piazza Fontana" l'autore annovera pure Digilio fra gli assolti (per prescrizione). In realtà l'artificiere di fiducia di Ordine Nuovo nel Veneto fu condannato in primo grado: si riconobbe che aveva svolto, come confessato, una consulenza tecnica sull'esplosivo poi usato nella strage. Appello e Cassazione non hanno smentito quella sentenza, a cui l'interessato non oppose ricorso. La prescrizione, in questo caso, non inficia la condanna, che è passata in giudicato rendendo Digilio tecnicamente l'unico colpevole processualmente accertato per la strage.

I finti scoop
In un'inchiesta complessa come quella su Piazza Fontana (intricata di suo, inquinata dai noti depistaggi, ormai appesantita da anni che la rendono ancora più difficoltosa) è normale affidarsi, oltre che ai fatti, a ragionamenti logico deduttivi o a intuizioni. L'importante è non farsi accecare dalla voglia di giungere a un risultato, spacciando le ultime per fatti acclarati. Purtroppo è proprio in questo tranello che cade "Il segreto di Piazza Fontana".
Tutta la spiegazione sulla doppia bomba alla Banca dell'agricoltura resta una teoria non sorretta da elementi solidi. Peraltro, c'è un dato storico che a Cucchiarelli sembra sfuggire: che i fascisti abbiano ideato una strategia complessa per addossare la strage agli anarchici è cosa ormai condivisa da tutti, e così pure che questa sia risultata efficace per lungo tempo. Perché i fascisti avrebbero dovuto renderla ancora più intricata di quanto già non sia apparsa negli anni?
Come ha ricordato Sofri nel suo ultimo libro ("La notte che Pinelli"), le indagini si orientarono verso gli anarchici, e su Valpreda in particolare, ben prima del "riconoscimento" di quest'ultimo, avvenuto la mattina del 16 dicembre: addirittura dal tardo pomeriggio del 12 dicembre, quando Pinelli viene invitato in Questura. Pinelli segue da via Scaldasole col proprio motorino il Commissario Calabresi che, con la propria vettura, carica con sé Sergio Ardau, un altro anarchico. E' lo stesso Ardau a ricordare che Calabresi e Panessa (funzionario di polizia che avrà un ruolo chiave nella successiva caduta del ferroviere anarchico) gli parlarono già durante il viaggio, accennando già in quel momento alla matrice anarchica dell'attentato e alle responsabilità di Valpreda. I fascisti, insomma, potevano seminare su un terreno già pronto al raccolto, senza complicarsi la vita fra doppie bombe, ordigni scomparsi, manovalanza inconsapevole (Valpreda) e consapevole (il vero attentatore); tutti elementi che, aggiungendosi a una tela già fitta, rischiavano di indebolirla invece di consolidarla. Da notare anche che ne "Il segreto di Piazza Fontana" si affronta pure un'altra ipotesi che per anni ha affascinato storici e magistrati: quella del "sosia di Valpreda", ossia del neofascista che sarebbe stato prescelto per compiere l'attentato proprio per la sua somiglianza con l'anarchico. Cucchiarelli in proposito arriva a una conclusione bizzarra: essendo due le bombe da depositare nella Banca, ci fu sì Valpreda, ma pure il suo sosia, entrambi arrivati sul posto con due distinti taxi. Anche in questo caso si tratta non solo di un particolare poco spiegabile (se si aveva la certezza di far compiere l'attentato a Valpreda e di incastrarlo con un riconoscimento, perché anche l'altro attentatore doveva essere un sosia dell'anarchico?), ma pure di un appesantimento organizzativo che poteva mettere a repentaglio l'operazione.
Peraltro, la coltre di silenzi e depistaggi gravante su Piazza Fontana in questi quarant'anni si è parzialmente disgregata anche nell'ambiente neofascista e ordinovista, e pure questo è un elemento non tenuto in debita considerazione da Cucchiarelli. Specie nell'inchiesta Salvini, iniziata alla fine degli anni 80 e sfociata nel processo concluso nel 2005, molti "camerati" hanno parlato, alcuni dando un contributo alla ricostruzione dell'eversione nera e stragista. Digilio, Siciliano, Bonazzi, Vinciguerra e altri hanno aperto il proprio album dei ricordi, alcuni vagamente, altri in modo preciso e circostanziato. Pure sull'intenzione di far ritrovare in una villa di Giangiacomo Feltrinelli timer analoghi a quelli usati il 12 dicembre Cucchiarelli non svela niente di nuovo: nell'ultima istruttoria ne hanno parlato Giusva Fioravanti, Bonazzi, Calore e persino Giannettini (l'agente Zeta del Sid, pesantemente implicato nelle indagini fin dagli anni 70). Dunque, perché mai in questo mare di rivelazioni (molte delle quali fatte da persone ormai non perseguibili penalmente, quindi contrassegnate da minori margini di ambiguità) non è emerso nulla sulla pista della doppia bomba? Se nell'immediato si trattava di particolari da sottrarre accuratamente alle indagini, i motivi di un'uguale riservatezza in rivelazioni di trent'anni successive non paiono spiegabili.
Considerazioni a parte sono invece dovute a un altro particolare che Cucchiarelli evidenzia nel libro: il ritrovamento di un pezzo di miccia, menzionato nella fase iniziale delle indagini e poi inspiegabilmente uscito di scena, che fa pensare a un ordigno il cui innesco fosse di tipologia diverso da quello ormai consolidato nella storia di Piazza Fontana (ossia: un innesco a miccia in luogo del famoso timer). Questo particolare è forse il più rilevante fra quelli apparsi nella prima e più interessante parte del volume, nonché difficile da controdedurre. Resta però un elemento solitario, da solo insufficiente per avallare ricostruzioni alternative a quella che la Magistratura ha già puntualmente descritto, pur senza arrivare a responsabilità personali. Un elemento che invece Cucchiarelli utilizza davvero come una miccia, per accendere il motore che lo porterà su un percorso che, da qui in poi, si fa arbitrario.

I timer: ricostruzione interessante, conclusioni discutibili
Cucchiarelli fa una lunga dissertazione sui timer (da 60 e 120 minuti) comprati dal gruppo di Freda e Ventura per Piazza Fontana e in generale per l'operazione del 12 dicembre. In particolare si sofferma sull'intercambiabilità e sulla modificabilità dei "dischi orari". Il suo intento è dimostrare che un timer da 120 minuti potesse essere trasformato in uno da 60, ingannando così un potenziale "attentatore in buona fede", il quale si sarebbe convinto di posare un ordigno la cui esplosione era stata programmata due ore dopo l'innesco, mentre in realtà il tempo concesso alla detonazione era dimezzato.
La riflessione sulla manomissione dei dischi-tempo è interessante, ma crea alcuni buchi logici nella stessa ricostruzione di Cucchiarelli, di cui l'autore sembra non accorgersi o liquida con superficialità.
Se la bomba "anarchica" era destinata a esplodere per induzione, cioè grazie a quella posata accanto dai fascisti e con l'innesco a miccia, perché si doveva modificare il timer? A quel punto sarebbe andato benissimo il temporizzatore da due ore, il risultato sarebbe stato analogo. Anzi, tutto sommato sarebbe stata una metodologia persino più sicura: si sarebbero evitate operazioni ridondanti (la modifica del timer) scongiurando pure l'ipotesi - seppure remota - che l'attentatore potesse accorgersi della manomissione.
Inoltre, l'ipotesi di alterazione dell'orario di scoppio sembra accordarsi, più che con la teoria cara a Cucchiarelli del doppio attentatore, con quella del gesto singolo. Si tenga conto che anche nell'ambiente ordinovista molti attentati, almeno fino al dicembre 69, erano puramente dimostrativi. In questo contesto, la sostituzione del timer poteva essere funzionale a vincere eventuali resistenze - etiche o semplicemente pragmatiche - di un singolo esecutore materiale, pedina parzialmente inconsapevole di una regia superiore, che avrebbe portato la bomba nella banca convinto di non causare una strage. Questa ipotesi spiegherebbe pure le voci, circolate per molto tempo anche nell'estrema destra, della "strage per errore": pur essendosi rivelata una convinzione errata (e probabilmente da certuni fatta circolare ad arte) non è escluso che nell'ambiente ci fosse chi aveva validi motivi per essersela formata. Questa soluzione manterrebbe la strage nel solo alveo fascista, e sarebbe pure coerente col quadro organizzativo generale ordinovista, laddove, è bene ricordarlo, era presente una compartimentazione piuttosto rigida, in cui non sempre la "bassa manovalanza" era pienamente consapevole delle decisioni assunte ai livelli superiori.
Cucchiarelli pare accorgersi dell'incongruenza, ma la liquida con poche parole: "con i timer contraffatti con le manopole da 120 minuti ci si era assicurati che il disastro avvenisse, anche se fosse esplosa solo la bomba anarchica". Un po' poco per supportare la teoria.
Anche nel caso dei timer la ricostruzione de "Il segreto di Piazza Fontana" risente di due limiti. In primo luogo, si allunga la filiera organizzativa dell'attentato, andando a supporre una ricchezza di elementi che - seppure concatenati razionalmente - rendono la strategia dei fascisti troppo machiavellica, quando una più lineare sarebbe stata non solo ugualmente funzionale, ma soprattutto maggiormente priva di rischi d'intoppo: raddoppiando gli ordigni si aumentano il personale necessario e i margini di incertezza (basta il ritardo o l'anticipo di pochi minuti nell'entrare nella banca, e tutto diventa più difficile da gestire), in definitiva si aumenta la possibilità di venire scoperti. In secondo luogo, Cucchiarelli denota un limite che permea pure il resto del lavoro: nel seguire una propria deduzione non tiene conto del fatto che le intuizioni spesso portano a strade alternative. L'autore, invece, in questo come in altri casi ne segue una sola, quasi che - affascinato da un solo percorso - abbia trascurato ogni alternativa che lo possa portare a conclusioni diverse. Ad esempio, tutta la vicenda delle due bombe scomparse potrebbe avere ben altra spiegazione: il loro ritrovamento potrebbe essere stato impedito per lo stesso motivo per cui fu fatta brillare la bomba alla Commerciale Italiana, ossia per evitare che si risalisse in breve tempo alla matrice fascista degli attentati.

Le fonti e la loro attendibilità
Lo ribadiamo: dopo un inizio interessante, è nella seconda parte del libro che Cucchiarelli perde il senso della misura. A un certo punto sembra abbandonare l'approccio investigativo (inizialmente seguito meticolosamente, pur se con conclusioni discutibili) per scegliere quello fantapolitico. Ma nel cambio di registro narrativo lo scrittore fa di peggio, avvicinandosi non alla fantapolitica lucida e metaforica di Orwell, ma a quella molto meno nobile di Dan Brown. Lo schema è lo stesso: un segreto inconfessabile a conoscenza di pochi all'origine di una battaglia nascosta tra uomini e apparati. Alcuni vengono assassinati per il segreto che hanno scoperto. Cucchiarelli decodifica segni e messaggi indecifrabili, raccoglie verità da personaggi ancora nell'ombra...
Ma chi sono le fonti rivelatrici delle nuove "verità" di Cucchiarelli? Innanzitutto, Silvano Russomanno, ex dirigente del Sisde, ossia un funzionario di quei servizi segreti che operavano anche infiltrando neofascisti negli ambienti di sinistra, in particolare in quelli anarchici. E poi c'è Mister X, nella descrizione di Cucchiarelli "un fascista operativo, uno che sapeva e che agiva". In altre parole, un pezzo grosso della destra extraparlamentare dell'epoca, che protetto dall'anonimato conduce il libro alle "scoperte" più eclatanti. E' Mister X a confermare l'esistenza delle bombe anarchiche e della miccia, a rivelare il particolare del doppio taxi e del doppio attentato, a ricostruire il percorso delle borse... E' dunque un personaggio anonimo a tracciare trama ed essenza del libro: lasciamo al lettore ogni valutazione circa la necessità di altri riscontri oggettivi o circa l'attendibilità che possa attribuirsi a tale fonte.
Su "Il segreto di Piazza Fontana" l'impressione complessiva è che Cucchiarelli si sia fatto prendere la mano dalle sue ricerche, in una specie di bulimia investigativa che gli fa vedere segreti dove segreti non esistono, che gli fa scambiare la dietrologia, solo perché ben documentata, il mezzo più opportuno per risolvere non solo Piazza Fontana, ma pure il caso Pinelli, l'uccisione di Mauro Rostagno (secondo l'autore ucciso da Lotta Continua, conclusione in contrasto con evidenze giudiziarie emerse di recente), la morte di Feltrinelli e l'omicidio Calabresi (ad avviso di Cucchiarelli assassinato, per aver scoperto "il segreto", da Lotta Continua in combutta con i servizi segreti). Decisamente troppo per un libro che denuncia il proprio limite fin dalla copertina, dove si afferma "finalmente la verità sulla strage", con un'enfasi che del volume sottolinea, più che la natura, i limiti di una scarsa umiltà. "Il segreto di Piazza Fontana" è, se non un depistaggio, un'occasione mancata. O forse un'operazione politica utile a ingenerare confusione e mettere in ombra importanti acquisizioni giudiziarie, tra cui l'innocenza degli anarchici, approfittando di un clima revisionista e cialtronesco che oggi rende possibile far rientrare dalla finestra veleni e sospetti già da tempo usciti dalla porta principale della storia.

Francesco "baro" Barilli e Saverio Ferrari

giovedì 4 giugno 2009

“Con il nome di mio figlio. Dialoghi con Haidi Giuliani”

recensione di Francesco “baro” Barilli e Checchino Antonini

Nella vita di una persona esistono fatti che determinano un prima e un dopo, in positivo o in negativo. Non sono molti: il primo incontro con qualcuno che si rivelerà fondamentale, la nascita di un figlio, la morte di una persona cara… Ed esistono fatti che determinano un prima e un dopo in un’intera generazione.
In America esisteva una frase: “dov’eri quando hanno ucciso John Kennedy?”. Da noi non la si è mai usata, non così esplicitamente, neppure di fronte ad avvenimenti che hanno segnato l’esistenza collettiva. Pensiamo a Piazza Fontana, nel suo significato paradigmatico della strategia della tensione, nel suo rappresentare un orribile spartiacque per la storia del Paese. Sicuramente quella frase può essere usata per i fatti di Genova e l’omicidio di Carlo Giuliani, può essere usata da una generazione che si risvegliò dopo la notte della Diaz, definita di volta in volta notte cilena o macelleria messicana, fino a capirne i contorni assolutamente italiani, che mostrarono i limiti di una democrazia che stava scivolando verso il baratro, verso quell’enorme “zona gialla” che limita i diritti e che dopo Genova sembra essersi allargata all’intero Paese.
“Con il nome di mio figlio. Dialoghi con Haidi Giuliani” (curato da Marco Rovelli e da poco uscito per le edizioni Transeuropa) lo si potrebbe quindi valutare come un ennesimo lavoro sul luglio 2001, avvicinandosi al testo pensando di trovarvi un approfondimento su quei giorni, più prezioso per la voce da cui proviene. Desiderio legittimo quanto errato: “Con il nome di mio figlio” non è un saggio su Genova, e neppure è (o non è “solo”) una serie di ricordi toccanti della madre di Carlo Giuliani.
Haidi aveva già raccontato Carlo e Piazza Alimonda in almeno due occasioni. Prima nel film di Francesca Comencini “Carlo Giuliani, ragazzo”, poi nel libro “Un anno senza Carlo”, scritto con Giuliano sotto la guida di Antonella Marrone. Se il film era la denuncia dell’omicidio, ed aiutava a rimettere nella giusta luce non solo i fatti di Piazza Alimonda, ma l’intera atmosfera che sconvolse Genova, il libro parlava del successivo percorso dei genitori del ragazzo ucciso da un carabiniere il 20 luglio 2001. Se il film raccontava la ricerca della verità, il libro mostrava come quella verità andasse difesa, come dovesse essere conservata la memoria di quei fatti.
“Con il nome di mio figlio” raccoglie un dialogo a ruota libera fra Haidi e Marco, intermezzato da pagine tratte dai diari di Haidi. Può apparire – e in parte è – più spezzettato e meno organico dei due lavori già citati, mancando un univoco tema narrativo. Ma, nonostante questo limite, è proprio in questo lavoro che Haidi e Marco costruiscono il panorama completo degli 8 anni trascorsi dal luglio genovese. Nel libro c’è tutto il Carlo che ci è consentito conoscere, senza travalicare il limite di un dolore che resta personale: il figlio, il ragazzo sensibile che scriveva le sue riflessioni in forma poetica su biglietti che la madre oggi custodisce con cura (uno, particolarmente intenso, appare sulla terza di copertina del libro), la vittima della repressione, ma anche il Carlo insorto, il ribelle che s’indigna di fronte all’ingiustizia che vede perpetrarsi davanti a sé e paga la propria ribellione con la vita. Ma c’è qualcos’altro, e forse questo è il vero valore aggiunto (e anche il merito di Marco Rovelli) rispetto ai lavori precedenti: c’è tutta la Haidi che in questi anni chi scrive ha potuto conoscere. La madre, ma anche la maestra che ha amato l’insegnamento (una testimonianza di questi tempi ancora più preziosa), la senatrice spaesata ma combattiva che segue la vita di chi è costretto in carcere o nei lager per migranti (siano essi definiti CPT o CIE poco importa: lager è ancora la parola più adatta a descriverli), la testimone di una scia di vittime che attraversa Genova partendo da lontano e arrivando fino a Dax, Aldro, Aldo Bianzino e tanti altri. In una parola, c’è la Haidi “compagna”, una parola che oggi sembra provocare quasi imbarazzo, ma che – come recitava una poesia di Paul Eluard che amava ricordare Giovanni Pesce – è una di quelle parole per cui vale la pena di vivere.
“Con il nome di mio figlio” non è un libro da commentare secondo semplici categorie quali “bello” “utile” eccetera. E’ un libro che racconta un percorso dove ad essere importante non è la meta, ma il viaggio. Un viaggio che potremmo definire “camminare domandando” e che al tempo stesso è percorso umano, politico, di impegno civile. Nel libro potrete trovare le tracce di quel cammino e di quelle domande. E per questo vi sarà prezioso quanto è caro a chi scrive questo commento...